Follia pop o autorialità classica? La seconda. Questo penultimo Takashi Miike (a Cannes è passato Ichimei, e il discorso fila) non è quello di Zebraman II, sempre nel cartellone dell'ultima Mostra di Venezia: 13 Assassini è forse il film più accessibile del suo intero corpus, perché smussa, “classicizza” la poetica del regista nipponico senza edulcorarla e senza svilirla. In altre parole, non è il Sukiyaki Western Django portato al Lido quattro anni fa, bensì un'opera addomesticata, ma non asservita: non scontenta nessuno - i fan più duri e puri? - e potrebbe soddisfare chiunque, a partire dal presidente di giuria e amico Quentin Tarantino, che l'ha visto con le lacrime e ne ha rivisto la prima parte, pur senza premiarlo. E proprio quella prima parte è, almeno apparentemente, il suo tallone d'Achille: 13 Assassini carbura molto lentamente, addirittura faticosamente, prima di dare strada alla lunga, emozionante battaglia finale.
La storia è in cappa e spada, con i samurai per trama e le cospirazioni per ordito, nel Giappone feudale di primo Ottocento: Miike rifà l'omonimo di Eichi Kudo (chi l'ha visto, ne tesse le lodi, anche a scapito del "calco" di Miike) con una certa fedeltà, ma guarda anche altrove, al capolavoro di Akira Kurosawa, I sette samurai, seguendone l'epos sui generis, con tutte le deviazioni del caso ironico e sardonico ma senza strafare, e ripercorrendone la scansione narrativa. Ovvero, un consigliere di corte, Shinzaemon Shimada (Kôji Yakusho), assolda un gruppo di samurai e ronin per eliminare il giovane e psicopatico erede di uno shogun: sarà lotta impari e all'ultimo sangue, tra i confini di un villaggio bucolico.
Prima di tingersi di rosso sangue, la strada è tortuosa, piana e camminata senza fretta: conosciamo gli equilibri e gli equilibrismi di potere dello shogunato, le malvagità dell'erede al trono e la rigidità della società giapponese dell'epoca, attraverso quella “sporca dozzina” che si scontrerà contro le soverchianti truppe del villain.
In verità, questo prologo esteso è persino farraginoso, involuto, tutto giocato sulla stasi a bocce ferme e spade ringuainate: credeteci, la seconda parte vi ripagherà dell'attesa, smossa solo da qualche fendente qui e là. Non temete, ne arriveranno a iosa, in una battaglia campale meravigliosamente coreografata, stupendamente inquadrata e montata intervallando con sapienza caos in mischia e ordine delle stoccate. Da tempo, non vedevamo nulla di simile, per complessità, intensità e vis ironica. Sì, perché il mondo samurai viene travolto e stravolto da battute non postmoderne, ma diegeticamente mirate, a stigmatizzare l'arretratezza feudale, il senso del dovere stolido e la mitologia fessa, grazie a un montanaro che tira pietre e non nasconde la mano. Per chi rimane in piedi infine arriverà l'affrancamento, ma la libertà 13 Assassini se l'era già ampiamente conquistata. Quella che sa di cinema.