“Ho venduto un sogno, ma anche se non si è realizzato nel modo sperato, ha comuque lasciato qualcosa di positivo a tutti” dice Alessandra Celesia, regista di Mirage à l'italienne, documentario in concorso nella sezione lungometraggi del Milano Film Festival, che segue il destino di cinque italiani in cerca di un'opportunità all'estero per un futuro migliore.
A Torino, nel 1995, durante un altro periodo di crisi, subito dopo tangentopoli, su tram e autobus compare un annuncio: “Cerchi lavoro? L'Alaska ti aspetta”. “Mi era rimasto impresso – dice la regista - e, quando mi hanno chiesto se avevo qualcosa da raccontare sull'Italia, ho pensato fosse perfetto per descrivere l'attualità. Ho contattato un'azienda di salmoni in Alaska e riproposto gli stessi annunci pubblicitari”. Ci sono state un numero impressionante di richieste, nel film si assiste ai colloqui di selezione ed emerge un diffusissimo desiderio di fuga: “Abbiamo parlato con persone disperate, imbestialite, che avevano voglia di sfogarsi ed era solo il 2010, chissà cosa succederebbe ora?”.
Non lo vuole definire un esperimento sociale (cinque mesi e 190 mila euro di budget), ma “un ibrido, un reality che tende alla fiction, forse. Ho presentato un'idea delirante ai produttori di un canale televisivo francese, Canal Art, proponendo un work in progress che non si sapeva bene dove sarebbe andato a finire. E' stato inusuale, di solito un documentario si fa su qualcuno, stavolta non avevo i personaggi, perché sarebbero stati i candidati che rispondevano all'annuncio”. C'è una sottile linea che separa la realtà dal cinema del reale e spesso la presenza di una cinepresa cambia tutto, eppure l'empatia è tangibile e la regista rimane invisibile: “Prima delle riprese ci siamo presi un mese per conoscerci e osservarci. I personaggi si devono appropriare del film dovevano essere disponibili e aver voglia di farlo, erano implicati nel processo in modo tale che potessi filmare i loro momenti quotidiani e intimi in modo spontaneo. Non sono partita da una sceneggiatura, la scrittura è avvenuta solo in fase di montaggio. Avendoli scelti per quello che erano avevo intuito che c'erano delle potenzialità, durante l'avventura in Alaska, per esempio, si è creato una sorta di rapporto padre/figlio tra due personaggi, l'uno orfano di padre e l'altro che aveva perso un figlio. È come piantare un fiore in un vaso, devo stare attento a non stringerlo troppo, è un aggiustamento della realtà, il desiderio di darle un altro statuto, una bellezza e un livello metaforico, guardando con gli occhi del sentimento e farlo passare nello spettatore. Non il dolore per il dolore, ma raccontare la fragilità rendendola eroica”.
Un “documentario di creazione” è fatto di osservazione, ma soprattutto di relazione, che comporta fiducia e condivisione. “Nel lavoro del documentarista c'è un coinvolgimento umano maggiore, metti piede nella vita di qualcuno e, inevitabilmente, qualcosa cambi, specialmente in situazioni di fragilità, e quando ne esci è un vuoto per entrambe le parti che stanno al di qua e al di là della camera”. Alessandra Celesia è un'italiana trapiantata in Francia, per esigenze affettive e professionali, talento prestato al cinema dal teatro che ha vinto nel 2011 il premio Miglior Documentario al 53esimo Festival dei Popoli di Firenze con il doc Le libraire de Belfast. Per il futuro ha una speranza, che “con la vittoria di Rosi a Venezia ci sia una maggior distribuzione di questo genere nelle sale. Questo tipo di documentario non è fatto per la tv, va visto sul grande schermo, lo hanno dimostrato Segre, Garrone, ma prima Pasolini. Mi sembra stia crescendo l'interesse in Italia, piuttosto che in Francia, non solo tra gli intellettuali, in fondo siamo abituati al Neorealismo, siamo preparati alla frontiera”.