"La sua gente aveva bisogno di un leader, lui gli diede un campione". Nelson Mandela scelse François Pienaar, Clint Eastwood scommette su Matt Damon, che vestita la maglietta verde e oro delle antilopi sudafricane - e smessi i chili in eccesso (il parrucchino, gli occhiali…) accumulati per la magnifica interpretazione in The Informant! di Soderbergh - scende in campo per riportare alla memoria la storica vittoria degli Springboks alla Coppa del Mondo di Rugby del 1995. Storica perché ottenuta proprio a Johannesburg e alla prima partecipazione alla competizione della nazionale, ammessa dopo la fine dell'apartheid e in seguito all'istituzione, nel '92, della South African Rugby Football Union (dal 2005 SARU - South African Rugby Union), nata dalla fusione delle due organizzazioni che gestivano lo sport praticato dai bianchi e quello praticato dai neri.
Non un personaggio qualsiasi, dunque, per Matt Damon, chiamato a vestire i panni di colui il quale - François Pienaar, capitano di quella gloriosa compagine - venne immortalato a fine gara in una di quelle foto del secolo scorso passate alla storia, con il trofeo stretto in una mano e, nell'altra, la mano del presidente Mandela (nel film Morgan Freeman, anche produttore). Una vittoria, come disse lo stesso rugbysta, non solo per gli spettatori presenti quel giorno allo stadio, ma per tutto il popolo sudafricano, bianco e nero, finalmente unito. Un passaggio diretto per l'agognata statuetta da miglior attore (non) protagonista e per l'aldilà, invece, per l'attore americano, “riscelto” da Eastwood immediatamente dopo Invictus (titolo che rimanda al poemetto di William Ernest Henley, più volte citato da Mandela, nelle sale USA da dicembre, in Italia il 26 febbraio) per il prossimo Hereafter, thriller soprannaturale alla Sesto senso, scritto da Peter Morgan e prodotto dal regista californiano insieme a Steven Spielberg: una nuova sfida tanto per Eastwood quanto per Damon, entrambi alla prima esperienza “trascendente” della loro carriera. Che per la star di Boston, 39 anni compiuti di recente, è giunta al punto di non ritorno: ne è passata di acqua sotto i ponti dal folgorante biennio 1997/98, quando Di Caprio conquistava il mondo con Titanic mentre lui divideva l'Oscar con Ben Affleck per la sceneggiatura di Will Hunting - Genio ribelle (primo dei tre film interpretati per Gus Van Sant) e si trasformava per Coppola ne L'uomo della pioggia, nel Soldato Ryan per Spielberg e, un anno più tardi, nel Mr. Ripley di Anthony Minghella.
Il tempo di due trilogie, quella divertente e scanzonata nella banda Ocean's di Soderbergh - altro amico, prima che regista, con cui condividere idee e progetti - e quella della definitiva, dirompente consacrazione, nei panni dello smemorato Jason Bourne, ruolo che tornerà ad interpretare - sempre diretto da Paul Greengrass - nell'annunciato quarto capitolo della saga. Muscoli, azione e svariate identità: ne sanno qualcosa Scorsese e De Niro, che l'hanno voluto rispettivamente poliziotto corrotto in The Departed e agente della nascente CIA in The Good Shepherd. Ma chi continua a marcarlo veramente stretto è Greengrass, che in Green Zone (negli States da marzo 2010) lo manda nell'Iraq 2003 - a conflitto appena scoppiato - per cercare la verità sulle armi di distruzione di massa, mentre George Nolfi - sceneggiatore dei vari Bourne – lo ha voluto per il suo esordio in regia (The Adjustment Bureau), da un racconto breve di Philip K. Dick.