“Nessun volo pindarico da critico, ma le emozioni da spettatore di cineclub”. Così Carlo Verdone spiega le ragioni dietro le “Cinque grandi emozioni” offerte da guest director al pubblico del 37° Torino Film Festival: Ordet di Carl Theodor Dreyer, Buon compleanno Mr. Grape di Lasse Hallström, Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Oltre il giardino di Hal Ashby, Viale del tramonto di Billy Wilder.

“Devo ringraziare mio padre (lo studioso Mario, NdR) per avermi regalato al tessera del Filmstudio nel 1969, per circa dieci anni ho frequentato quel cineclub, il Tevere, l’Azzurro Scipioni, che erano seguiti da grandi educatori di cultura cinematografica. Non ho visto solo cinema italiano, Blasetti, Sordi e Totò, ma anche quello internazionale: tutto l’underground americano, Grifi, Schifano, Kenneth Anger, Andy Warhol, Yoko Ono, poi le grandi rassegne su Pabst, Dreyer, Lang e Welles”.

Insomma, il giovane Carlo si fece una “bella scorpacciata di film e buona cultura”. Il regista e attore ricorda come si inventò lui il titolo Buon compleanno Mr. Grape, da programmatore del cinema Roma a Trastevere: “Mi colpì tantissimo DiCaprio, bravo pure Depp, e Lasse Hallstrom in gran forma, un film poetico”.

Se la scelta di Ordet deriva dai suoi studi di storia delle religioni, “la speculazione sulla fede, sui dogmi mi interessa molto”, la scelta di Oltre il giardino dall’amore per Peter Sellers, e poi c’è “il mio regista del cuore, il più grande di commedia, Pietro Germi, e Divorzio all'italiana è un film perfetto”, Verdone ricorda come il padre Mario lo boccò a un esame di storia e critici del cinema chiedendogli di Pabst e Dreyer: “Mi interrogò per primo, feci una brutta figura. “’Si presenti alla prossima sessione”, e mi dovetti fare una cultura”.

Poi rammenta la Super8 comprata nel 1970 da Isabella Rossellini, con cui girò “tre mediometraggi sperimentali: Poesia solare, Allegoria di primavera e, premiato a Tokyo, Elegia notturna, immagini con musica sinfonica o elettronica”. Anthony Quinn ne fu “molto colpito”, catalizzarono l’entrata al Centro Sperimentale di Carlo, che si diplomò in regia con Rossellini, ma non ci sono più: “Li ha persi la Rai, però sono convinto che quando muoio qualcuno li tirerà fuori, e mi scoprirete psichedelico, notturno, con una dolce cupezza”.

Quindi, uno sguardo sulla città che lo ospita, Torino, dove è “nato artisticamente, qui, alla Rai in via Verdi: Enzo Trapani non aveva copione, creava alla giornata, mentre il dottor Gambarotta mi sconsigliò di comprarmi una 127, dicendomi che di lì a breve mi sarei ripresentato agli studi in auto blu con l’autista: oggi quella sua previsione si è effettivamente realizzata, e mi sono commosso”.

Professando sempre “grande umiltà: non mi sono mai sentito arrivato, ancora oggi ogni volta è come ricominciare da capo, prima di girare non dormo”, Verdone sottolinea come “arrivare a pubblico e critica sarebbe l’ideale, ma non esiste l’unanimità: cerchi di fare del tuo meglio per interessare entrambi, ma se il pubblico manca, qualche problemino te lo crea. Io non ho mai fatto perdere soldi a un produttore, anche il mio risultato meno buono, quello di C'era un cinese in coma, col tempo s’è riscattato. Tra le altre cose, è il film preferito dei miei da Toni Servillo”.

Consapevole che “tanti spettatori rivalutano i miei film, e 15 anni fa non godevo di questa attenzione”, Verdone prima evidenzia come “tanti miei colleghi criticano le serie e fanno male, non dobbiamo essere nostalgici”, poi rivela: “Farò una serie TV tra due anni, aspetto che torni il produttore Aurelio De Laurentiis da Los Angeles, non posso ancora darlo per certo. Io non lo chiamo, chiamasse lui, ma ho buone sensazioni, il progetto se lo litigavano tre major, vediamo”.

Infine, sul nuovo film, Si vive una volta sola, che arriverà nelle nostre sale il 27 febbraio: “E’ buono ed è una buona data, ci permette di non avere tante battaglie da fare con altri titoli e di ottenere un numero elevato di sale”.