“Amo Roma, e l'Italia. Il mio primo riconoscimento internazionale è stato il David per I giorni del cielo, e ora eccomi qui per questo premio”. Ovvero, il Marc'Aurelio all'attore che Richard Gere riceverà questa sera al Festival di Roma, dove sfilerà sul red carpet e introdurrà la visione proprio di Days of Heaven, il secondo film di Terrence Malick. “Ah, non è un premio alla carriera, meno male - scherza Gere - di solito te li danno quando stai per morire il giorno dopo, o sei professionalmente finito”. Di fronte alla stampa, ripercorre il suo essere Richard Gere, tra cinema (poco), vita privata e, soprattutto, buddismo.
“Ho fatto film nell'era d'oro del cinema, gli anni ‘60, ‘70 e '80, con gli studios pronti a correre rischi, senza spendere una fortuna: eravamo pionieri con il machete nella giungla, facevamo i film che volevamo fare  e vedere, mentre oggi ci sono molti più blockbuster, è difficile trovare finanziamenti ed energie per i piccoli film. Mi spiace per giovani che partono oggi, queste regole non necessariamente incoraggiano la creatività”, sottolinea l'indimenticabile American Gigolo, e tra i suoi giovani colleghi cita Ryan Gosling: “Mia moglie l'adora, vorrà dire che forse è come me”.
Poi, il buddismo si fa strada: “Tutti provano disagio nei confronti dell'universo, io anche da giovane, e per capire meglio ho fatto studi e ricerche, finché il buddismo non mi ha colpito. Di solito vediamo la realtà con scetticismo, intorno a noi ci sono tanti stimoli fuorvianti, ma è possibile sviluppare un rapporto più vicino alla realtà e all'interpretazione che la scienza dà  dell'universo. Da qui, generosità, amore e senso di condivisione: sono sulla strada giusta per andare oltre la menzogna”.
Ritornando al grande schermo, confessa: “Neanche me lo ricordo Days of Heaven, l'ho fatto 36 anni fa e non l'ho più visto da allora”. Ma c'è di più, “fare l'attore per me è un lavoro, un ottimo lavoro, ma non ho aspettative eccessive: per me conta la vita, quella la prendo sul serio, mi piace il lavoro, ma non lo personalizzo troppo, sono umile”. E, aggiunge Gere, “non ho mai programmato il futuro, non faccio piani, del resto, ho dedicato energie e impegno per proposte di cui non s'è fatto poi nulla”. Ma perché decide di accettare una parte? “Quando una proposta dà interrogativi e, quindi, apre a un viaggio per le risposte, un viaggio di vita”.
Naturale parlare di Tibet, con una sosta nel cinema: “Mi arrivano tanti copioni al riguardo, ma sono ipercritico, perché il tema è troppo importante: preferisco prestare la mia voce ai documentari, che hanno una capacità eterna di raccontare la verità”. Ma qual è la situazione odierna in Tibet? “Il partito comunista cinese ha assunto posizioni molto rigide nei confronti dei tibetani: i recenti sacrifici, le immolazioni non sono in linea con la tradizione di questo popolo”.
Rientrato da poco dal Katmandu, dove ha reso omaggio al suo maestro deceduto, il tentativo di riportarlo a Hollywood non riesce, almeno a mezzo stampa: “Io sex symbol? Non me ne sono mai reso conto, fuorché nelle interviste e conferenze: non è parte della mia vita, mi piace pensare di divertire gente, ma non le etichette”.
Viceversa, a 62 anni, Richard può affermare che “la realtà di ciò che siamo è amore ed empatia, non durezza. Io ci credo, è questo il significato dell'universo: la violenza, la sofferenza non è all'essenza di ciò che siamo, possiamo rimuoverla, e arrivare alla compassione. So che il mio è un atteggiamento ottimista: siamo in un incubo, ma dobbiamo risvegliarci, anche se è difficile”.
E difficile è pure la situazione globale, in primis per la crisi finanziaria ed economica: “Inside Job è il mio film preferito sulla crisi, l'ho votato agli Oscar (miglior documentario l'anno scorso, NdR), perché dà una visione molto chiara di come siamo arrivati a questa situazione di totale irresponsabilità, e l'ironia è che i responsabili della crisi hanno fatto carriera. Il film mi ha turbato, oggi sentiamo rabbia e violazione, è come essere stuprati da avidità e irresponsabilità”. Indignato anche Richard? “Le manifestazioni a Wall Street sono sentite, pacifiche, un'ottima cosa. Grazie a Internet, le proteste circolano: il potere dovrà stare ad ascoltare, l'avidità può essere sconfitta”.
E il cinema? “Quando ho fatto Cotton Club, Coppola già all'epoca (1984) diceva che avrebbe potuto fare un film con il computer: pensavamo fosse pazzo, invece… Oggi i film sono in CGI, ma la magia dell'interpretazione non può essere riprodotta al computer: anche nel motion capture, la base è l'attore. E si tratta sempre di raccontare una storia: conta la qualità mitica del nostro viaggio dal buio alla luce, non la tecnologia. Che pure non mi fa paura”.
Che manca? I sogni: “Quelli per mio figlio che ha 11 anni, la mia famiglia e miei maestri tibetani: il cinema è un veicolo, ma è niente rispetto a questi sogni”. E uno scherzo che sa di verità: “Non ho ancora deciso di fare l'attore, forse quando diventerò grande…”. Viceversa, “forse potrei fare il regista, ma mi farebbe paura dedicare un anno e mezzo della mia vita a un film” e, comunque, non ne farà uno sul Dalai Lama: “Basta Kundun di Scorsese”. Infine, una excusatio petita: “Non voglio dar l'impressione che non mi impegno nel mio lavoro, ma non esagero l'importanza di quel che faccio”. Richard Gere, attore?