Quattro film in poco più di 30 anni la dicono lunga sull'idea di cinema di Franco Piavoli. Autore schivo, da sempre ai margini dell'industria, ostinato nel perseguire una "prassi" della regia essenziale, epistemologica e totalizzante, Piavoli ha rappresentato nella piccola storia dell'audiovisivo italiano l'underground, il laboratorio di ricerca e di sperimentazione espressiva.
Più che alla sua figura, al suo posto nella vicenda culturale del paese o alla biografia, Habitat [Piavoli] di Claudio Casazza e Luca Ferri (in concorso nella sezione Italiana.doc. del 31° Festival di Torino) guarda altrove: è un tentativo di assimilazione della poetica del filmaker bresciano (nato a Pozzolengo, 1933). Né fiction né documentario ma un film-saggio, alla maniera di quelli che Piavoli stesso ha realizzato, in cui nature morte, oggetti, riflessi di luce, animali, uomini, in breve la materia estesa dell'esistenza, compongono una sorta di poema visivo-sonoro, una tensione senza origine e senza centro verso l'oggetto del proprio conoscere. E' quasi un accidente che oggetto e soggetto della visione qui si confondano, riconducendoci nell'uno e nell'altro caso a Piavoli stesso.
Il regista apre le porte di casa - un casolare fuori dal mondo e dal tempo, ça va sans dire - ai due giovani filmaker (Casazza viene da FareCinema, la scuola di Bellocchio, mentre il nome di Ferri già da qualche anno circola nei festival, tra concorsi, rassegne e mostre), con la precisa indicazione però di riprenderlo solo sporadicamente. Sono contati i momenti in cui Piavoli viene catturato da un primo piano, e anche allora la sua presenza viene "opacizzata" da un vetro, schermata da un piano, tenuta a distanza. A imporsi sono invece le cose, l'organico e l'inorganico trattati indifferentemente come il Vivente, il momento di un processo che avanza inarrestabile. Come dice Piavoli: "Essere e divenire: non saprei distinguere questi due concetti".
Fotografie, tavoli, pareti vuote, voci, suoni, immagini tratte dai vecchi film del regista (Il pianeta azzurro, Nostos - Il ritorno), si alternano senza soluzione di continuità, in un magma filmico immobile e ipnotico, un segmento raffreddato della variazione universale. Ecco perché il cinema secondo Piavoli è comunque approssimazione, e poco senso ha distinguere tra fiction e documentario. "Tutto quello che possiamo fare - dice l'ottuagenario regista - è demistificare, svelare il meccanismo". Il suo pensiero è vivace, spazia dall'atomismo allo strutturalismo americano, le sue parole lo restituiscono così com'è, senza per forza un ordine logico. Il suo ateismo è profondamente religioso.
Habitat [Piavoli] è in fondo un hommage, un film su Piavoli come Piavoli stesso l'avrebbe diretto. Un cortocircuito sensoriale e semantico che abdica all'esegesi, quasi al linguaggio, per tenere aperte tutte le strade del Senso: "Il cinema è scoperta, ma una scoperta incompleta - dichiara Piavoli nel finale -. Sta ancora mutando. Sta cambiando la tecnologia. L'obiettivo della macchina da presa è uno strumento di esplorazione e anche d'inganni. Il tempo catturato, il tempo che passa, un movimento che non è detto esista davvero. La verità è operazione".