La storia del cinema, l'elaborazione del lutto, l'edificazione morale, il trasformismo. Sono i quattro punti cardinali segnati sulla road-map degli Oscar. Quest'anno le scelte dell'Academy sembrano rispondere a precise direttrici tematiche, riassumibili nella quaterna di cui sopra: Hugo Cabret (11 nomination), The Artist (10 nomination) e Midnight in Paris (3 candidature) sono, ciascuno a suo modo, sentiti omaggi alla settima arte, con il primo e il terzo ambientati nella Villa Lumiere (Méliès e gli anni '20 nel film di Scorsese, una Parigi senza frontiere del tempo nella commedia di Allen), e il secondo a Hollywood (nel passaggio dal cinema muto al sonoro) pure se prodotto in Francia.
The Descendants (5 nomination) ed Extremely loud & Incredibly Close (2 candidature) affrontano invece il tema della perdita, adattando entrambi un'opera letteraria (il film di Payne è la trasposizione del romanzo di Kaui Hart Hemmings, quello di Daldry del libro di Jonathan Safran Foer). In The Descendants il ricco hawaiano George Clooney ridona significato al suo tempo - il ruolo di genitore, il senso delle radici, la conoscenza di sè - proprio mentre si ferma quello della moglie, in coma irreversibile. Nel film di Sthephen Daldry è la morte del padre, vittima dell'attacco alle Twin Towers, a rifondare su nuove basi (e consapevolezze) la vita del bambino protagonista.
Diversamente in The Help (4 nomination) di Tate Taylor e War Horse (6 nomination) di Steven Spielberg l'edificazione morale - rispettivamente sui temi del razzismo e della guerra - va a braccetto con la tradizione formale dei vecchi drammoni americani: buoni sentimenti in bello stile, retorica e magniloquenza. Declinati rigorosamente al passato (Mississippi anni '60 e il primo conflitto mondiale).
Il vero outsider è Moneyball (6 nomination) di Bennett Miller (L'arte di vincere in italiano, da venerdì nelle nostre sale con Warner) e mai appellativo fu più appropriato trattandosi di film sportivo. Azzardiamo: è forse il più americano dei lungometraggi in gara, per la capacità di unire in un "colpo solo" parabole morali e traiettorie "in e fuori" campo (delle palle da baseball). Se per gli yankee tutto sport è paese, il baseball è la pietra angolare della nazione.
Postilla finale sulla categoria delle migliori attrici protagoniste, dove vige la legge del trasformismo: Meryl Streep - la favorita, ha già vinto un Golden Globe - si è mutata nella lady di ferro Margaret Thatcher (The Iron Lady), Michelle Williams si è calata nei panni di Marilyn Monroe (My Week with Marilyn), Glenn Close addirittura in quelli di un uomo: Albert Nobbs. Metamorfosi fatte a regola d'arte, sempre buone per strappare una statuetta. L'Academy ama gli attori mutanti. Tranne se si chiamano Di Caprio (J.Edgar), lui che tutto cambia purché l'Oscar rimanga dov'è: ovunque e mai nelle sue mani.