“Non ho nessuna intenzione di mandare in pensione Rambo”: la promessa di Sylvester Stallone non lascia dubbi. Lo spirito da guerriero sfoderato in Bullet to the head di Walter Hill, in anteprima mondiale al Festival Internazionale del Film di Roma, va ben oltre il grande schermo anche se fa capolino solo di rado. Una volta sola, per essere precisi, durante l'incontro con i giornalisti: un bodyguard si è frapposto tra Sly e la platea subito dopo l'incontro per impedire “assalti” da fan, ma si è visto spostare di peso con una mano sulla spalla. Nessuna parola, neppure un cenno prima che Stallone si dedicasse agli autografi di rito.
Dopo aver ricevuto in Campidoglio la Lupa Capitolina dal sindaco Gianni Alemanno, l'interprete di Rocky ha lanciato un appello per salvare Cinecittà, che definisce “uno di quei posti iconici e molto rari da trovare, come un tempio o un museo: mi auguro che il Governo decida di farlo sopravvivere per renderlo ancora più splendente di prima”. Nel frattempo ha incontrato i giovani della periferia romana di Tor Bella Monaca: “Questi ragazzi mi ricordano i luoghi dove sono cresciuto - ha detto - e mi fanno fare un salto indietro nel tempo fino alla mia infanzia. Ho detto loro di non temere il fallimento, perché sono le sconfitte a spianare la strada alla perseveranza e poi al successo”.
A proposito di lezioni imparate sul campo Sly ricorda: “Un paio di film con troppa azione mi hanno insegnato che invece un dialogo può appassionare più di un inseguimento”. Non sono stati solo gli errori a indicargli la strada, ma persino l'improvvisa popolarità: “Dopo il primo Rocky ero convinto che tutti a Hollywood mi amassero, così mi sono presentato nello studio del produttore per chiedere di essere pagato per il film, dato che ancora vivevo in un appartamentino fatiscente e mi sono sentito rispondere letteralmente di riportare le mie chiappe sul set invece di pensare ai soldi. Ho capito che questo lavoro è un business, non una storia d'amore. E se non ti prendi cura di tesso alla fine ti perdi e nessuno ti salva. Ecco il segreto della mia sopravvivenza nel settore per oltre 30 anni”.
Appena 22enne, infatti, ha incrociato un personaggio che lo ha trasformato: “Conoscere Woody Allen - dice - è uno di quei momenti che ti cambia la vita. Aveva chiamato me e un altro attore per un ruolo da cattivo ne Il dittatore dello stato libero di Bananas, ma poi timidamente ha mandato l'assistente a comunicarci che non facevamo abbastanza paura. Così ce ne siamo andati, ma ad un tratto il ragazzo mi convince a scendere dalla metro e riprovarci: ci cospargiamo di vasellina e polvere il viso e torniamo sul set, facendo prendere un incredibile spavento a Woody che balbettando ha poi deciso di assumerci immediatamente”.
La timidezza di un tempo è scomparsa lasciando il posto ad una presa di coscienza sempre maggiore (Sly ha fama di essere un tipo non facile) che oggi lo porta a considerare Bullet to the Head una fase transitoria della carriera grazie al ruolo del sicario con un cuore: “Combina l'ottimismo di Rocky al lato oscuro di Rambo e mi permette di aprirmi a ruoli futuri diversi ma nel frattempo sto buttando giù un'idea sul ritorno di Rambo. Uno come lui combatte anche quando non c'è una guerra: non ha una casa in cui tornare e non può ritirarsi. Vuole morire in modo glorioso e non sa fare altro: chissà che non torni per combattere l'attrice o in vesti femminili, si potrebbe chiamare Rambolina. D'altronde la società d'oggi è più permissiva”.
La vena comica, sconosciuta ai molti, compare spesso nel film, anche attraverso situazioni un po' estreme come lo scontro con le asce. “Ci sentivamo come i vichinghi e infatti mi sono ritrovato a fronteggiare Conan (al secolo Jason Momoa), un gigante di quasi due metri agile come una pantera. È stato un piacere essere colpito da lui perché lo ha fatto con stile e non è facile perché il combattimento è come una danza, ma violenta”.
È stato lui a suggerire la sceneggiatura a Walter Hill, che definisce Bullet to the Head “un omaggio all'action Anni Settanta e Ottanta, senza effetti speciali ma con grande personalità”: il sodalizio artistico dei due, secondo lo sceneggiatore padovano Alessandro Camon, “ha dato il tono dei dialoghi del film basati su personaggi che potrebbero ammazzarsi da un momento all'altro perché si trovano in parti opposte della legge, pur seguendo la stessa motivazione. Il conflitto (tra il killer Jimmy Bobo, aka Stallone e il detective Taylor Kwon, interpretato da Sung Kang, ndr) funziona”.
Sly dedica gran parte del tempo lontano dal set a tenersi in forma (“grazie alle attrezzature di techno gym italiane che sono meglio della corsa e dei pesi”) e alla famiglia: “Sono l'unico maschio - a parte il mio cane castrato - in una casa di donne con mia moglie, tre figlie, le domestiche. Per tener loro testa ci vuole ben più di Rambo”.