Ecco alcune tra le migliori recensioni scritte dai partecipanti al quarto Stage di critica cinematografica, promosso da Rivista del Cinematografo e Cahiers du Cinéma. Edizione 2009 archiviata con grande successo e boom di iscrizioni (oltre 600 per 45 posti disponibili), l'appuntamento è al prossimo anno. Nel frattempo, buona lettura!

Recensione: Il petroliere di Simona Busni

Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis) è l'uomo della terra. Lo vediamo emergere dalle profondità del deserto come uno scorpione, silenzioso e coriaceo, demone ctonio ossessionato dalla ricerca di una sacralità antica e potente. Egli è figlio della terra: non ha un passato, sembra essersi generato dalla polvere e dalle rocce; ascolta il richiamo mesmerico che si sprigiona dal suolo e scava, piccona, trivella, immergendosi nella putredine più nera, laddove morte e vita si fondono in un unico umore, quel sangue maledetto che sarà causa della sua perdizione.
In un certo senso, Daniel Plainview è la terra: il suo corpo riflette la spigolosità deforme del territorio in cui agisce, nessun barlume di umanità in quegli occhi taglienti che scrutano le altre forme di vita come se fossero pupazzi da utilizzare in vista di unico fine, ultimo e tremendo. Non ha niente di umano questo personaggio, esso incarna i dettami della pura pulsione, nel senso in cui l'ha intesa Deleuze ne L'Immagine-movimento: è lo straniero, il folle, il vampiro, il mutante, vaso di un'avidità illimitata che si alimenta suggendo il nettare di una verità basilare, passando da un ambiente all'altro. Ma la sua non è semplicemente la parabola discendente di un'esistenza votata al biondo Dio Denaro, qui nella declinazione brutta, sporca e cattiva del suo fratello Petrolio: la storia di Daniel Plainview, raccontata dal regista Paul Thomas Anderson a partire da una novella di Upton Sinclair, ha più a che fare con i padri, i figli e i fratelli di biblica memoria. Il petroliere è Abramo che sacrifica suo figlio Isacco e lo riottiene indietro, è Caino che uccide suo fratello Abele, è il messo del Signore che si scaglia contro i falsi profeti, in un marasma identitario che porta ogni figura a confondersi con le altre all'interno di un unico mondo originario.

Recensione: L'uomo in più di Micaela De Bernardo

Antonio Pisapia (Andrea Renzi) è un calciatore che sogna di diventare allenatore, uno che porta addosso i valori di uno sport sano, un elemento ingombrante per i presidenti che al pallone preferiscono la moneta. Il suo omonimo (Toni Servillo) si fa chiamare Tony: donne, droga e un buon piatto di pesce le sue ambizioni quotidiane. Siamo negli anni Ottanta, gli anni in cui tutti hanno l'illusione di poter diventare qualcuno chiudendo gli occhi al buon senso e spalancando le braccia alla volgarità vincente. In una Napoli che - per una volta - non è Vesuvio e Pulcinella si incrociano con un solo sguardo i destini dei due personaggi: timido l'uno, sfacciato l'altro. Antonio vive e morirà di tattiche; Tony finirà in carcere per una presunta violenza ad una minorenne. Per entrambi il successo sarà breve.
Se il doppio è un tema largamente utilizzato in letteratura, un canovaccio fin troppo recitato in teatro, è piacevole la sorpresa di trovarlo sul maxischermo diretto da un esordiente. Paolo Sorrentino, partenopeo puro sangue, cerca L'uomo in più sfogliando tra le pagine della cultura popolare italiana fatta di calcio e di musica leggera, senza dimenticare che dietro c'è sempre dell'altro. Lo sanno bene la fotografia di Pasquale Mari e le avvolgenti inquadrature del regista che accompagnano l'opera definita da Kermit Smith (al quale il film è dedicato) "così poco italiana". Come in ogni primo passo nel mondo del cinema, la citazione ad un maestro è d'obbligo: qui lo spogliatoio dello stadio San Paolo ricorda con scrupolosa distanza l'addestramento dei marines del Full Metal Jacket di Kubrick. Tante le buone intenzioni e tutte portate a termine. Promossi a pieni voti Renzi e Servillo, medaglia al valore a Sorrentino.

Recensione: Ad est del paradiso di Roberto Fedeli

Lech Kowalski continua a tingere di crudo realismo il clima underground del cinema indipendente americano,grazie al terzo tassello della sua trilogia polacca: L'arte di sopravvivere. A est del paradiso vive della confluenza tra l'esperienza individuale del proprio autore e la summa dei suoi lavori precedenti. La pellicola vive di due ineguali momenti, palesati per mezzo di altrettanti registri narrativi e formali. La prima parte della pellicola consta della presenza di un'intervista mascherata, costruita su una sobrietà atmosferica, dolcemente spezzata dal ritmo dei sospiri. Lo struggente racconto di Maria sulla deportazione dalla Polonia, viene modulato attraverso opposizioni timbriche; le parole della donna scorrono ora in modo ritmato, ora pigramente, ora appaiono ironiche, ora drammatiche. Assistiamo ad una teatralità sopita dall'empatia, che affonda le radici nel toccante ricordo del gulag siberiano. Kowalski parte dalla colossale sofferenza materna, per dipingere il fluire della propria vita in una New York underground di fine anni settanta. All'inversione del punto di vista, corrisponde il mutamento del registro formale e narrativo. Irrompe nel tessuto filmico l'autorità della musica ed una soffocante presenza della voice over. I frammenti delle vecchie opere saturano lo schermo come schegge impazzite. Il tour dei Sex Pistols e la quotidianità dell'eroinomane Gringo, affrescano il ritratto di un'epoca ormai passata. Il regista non arretra nemmeno di fronte al cadavere dell'uomo: un'amorfa salma introdotta da un mero zoom nell'oltretomba. L'opera non si esime dal presentarsi quale documentario metalinguistico, nella scena in cui la madre filma e fotografa il figlio Kowalski. Il tentativo di ripresa dei poveri, reso vano dall'intervento dei poliziotti, prosegue il discorso sul volto del potere, intrapreso dal racconto di Maria sulle guardie che si presentarono dinanzi al suo uscio, per cambiarle l'esistenza. "Il volto del potere è triste e provocatorio come il volto della povertà".

     Profilo: Park Chan-wook di Andrea Minichilli

Classe '63, nato da una famiglia cattolica e borghese, Park Chan-wook viene folgorato, durante l'ultimo anno di liceo, da La donna che visse due volte di Hitchcock, promettendosi che sarebbe diventato regista a qualsiasi costo. Durante gli anni universitari si dedica al cinema impegnandosi nelle attività del circolo cinematografico universitario, il Film Gang. Dopo diverse collaborazioni su testate giornalistiche ed esperienze sul set come aiuto regista dell'esordiente Kwak Jae-young (Cyborg She), nel '92 debutta dietro alla macchina da presa con The Moon is…The Sun's Dream, di cui firma anche la sceneggiatura. Il film ha poca fortuna e passano 5 anni prima che la sua seconda pellicola Trio veda la luce, mentre nel 1999 affronta, per la prima volta, l'esperienza di un cortometraggio con Judgement, selezionato al festival di Clermont-Ferrand.
La consacrazione arriva nel 2000 quando la casa di produzione Myung Films propone a Park di curare l'adattamento cinematografico del romanzo di Park Sang-yun DMZ; Joint Security Area, un giallo politico-militare, diviene da subito un grandissimo successo acclamato dalla critica e dal pubblico, catapultando Park tra i grandi autori del cinema nazionale.
Nel 2002 porta sul grande schermo l'estremo Sympathy for Mr. Vengeance, omaggio a La vendetta è mia (1979) di Imamura Shohei, e l'anno seguente è Old Boy - tratto dall'omonimo fumetto giapponese scritto da Garon Tsuchiya - a dominare le scene del festival di Cannes, vincendo il Gran Premio della giuria (riconoscimento mai ricevuto da un'opera coreana nei festival occidentali). 
Nel 2005 finalmente porta a termine la "trilogia della vendetta" con Sympathy for Lady Vengeance, e l'anno successivo spiazza pubblico e critica, sfuggendo dalle regole del "more of the same", con I'm a Cyborg, But That's Ok, delicato dramma sulla pazzia umana. 
Ultima fatica firmata 2009 è Thirst, un'oscura pellicola sul vampirismo, con cui vince per la seconda volta il Gran Premio della giuria del festival di Cannes.