54 minuti di documentario su Ingmar Bergman e nemmeno un secondo di noia. “Sentire, e poi capire”, è il titolo della retrospettiva che la 61° Berlinale dedica al regista svedese. Documentari girati tra il 1970 e il 72, naturalmente in Svezia, da Stig Björkman, regista, redattore della celebre rivista di cinema Chaplin e autore della bella intervista "Bergman on Bergman", cuore di Ingmar Bergman in 8 Scenes, il documentario dedicato al maestro svedese. Nel 1970 Björkman ha accompagnato Ingmar Bergman durante le riprese di Beröringen - L'adultera, capolavoro uscito l'anno dopo. Il materiale girato all'epoca è qui integrato con la lunga intervista di Björkman e interventi di Bibi Andersson, Max von Sydow e Elliott Gould, i protagonisti di allora. L'inizio la domanda a Bergman su cosa sia la regia; il documentario è il tentativo di dare una risposta a quella domanda. Non sono in pochi a considerare il cinema di Ingmar Bergman intellettualistico e, in definitiva, un po' noioso. A torto. Perché i film del maestro svedese scomparso nel 2007 risvegliano più ricordi di sensualità e passioni, di alte prestazioni dello spirito. In una celebre intervista di Playboy sul suo film scandalo “Il Silenzio” (1963), Bergman chiarì, definitivamente, questo punto. “Voglio che il pubblico senta i miei film, prima ancora di capirli. Per me è molto più importante”. La decana dei critici di cinema tedeschi del dopoguerra Karena Niehoff in un celebre articolo cui il Der Spiegel dedicò la copertina, scrisse del cinema di Bergman come di “un attacco frontale ai sensi”.
Nel documentario di Stig Björkman uno stupito Martin Scorsese confessa di non aver 'visto' Scene da un Matrimonio (1973) con gli occhi, bensí di averlo percepito come un ronzio nella bocca dello stomaco. François Truffaut descrisse le prime pellicole di Bergman, ancora insicure, come le "più affascinanti, intense, potenti, inesorabili - sfida e diletto per l'intelligenza". In un celebre saggio sul proprio cinema, che Bergman scrisse sotto pseudonimo, ammonisce il maestro: “questo Bergman fa troppi film riconoscibili immediatamente come film di Bergman. Bergman deve rompere qualche regola per liberare una poetica ancora trattenuta”. Da quel momento il regista svedese mantiene la promessa. I momenti più emozionanti del suo cinema si riveleranno quelli meno spettacolari. Come l'indimenticabile primo lungo sguardo di un'attrice (Harriet Andersson) fisso nella camera in Monica e il desiderio (1952). La prima e più importante regola dell'illusione cinematografica fatta a pezzi con il pubblico che diventa complice. Sono questi i momenti del cinema di Bergman che hanno trasformato il cinema: da linguaggio di imitazione a linguaggio di meditazione. Confessa Bergman, che la ripresa di un volto in primo piano è la sfida più grande e il punto più alto dell'espressione cinematografica. Come nel capolavoro Persona (1966), la pellicola più citata quando si parla di cinema e psicologia. Anche se il film deve la sua bellezza più alla struttura musicale, che non ai modelli del realismo psicologico. “Per me il primo piano, una pupilla che si dilata, una narice che trema, è, e resta, la cosa più grande e più affascinante che si possa raggiungere con gli strumenti di quest'arte”, confessa Bergman. “Il corpo è immenso, l'anima ne occupa solo un piccolo interstizio”. In quest'ottica Saraband è un addio perfetto: una partenza nell'ignoto dove corpo e anima si ritrovano. Forse. Il collega François Truffaut parla alla fine con la voce del cuore. “Bergman è stato un regista fisico e metafisico. Attraverso il corpo ci ha condotti al Divino”.