Tra gli ospiti d’onore della dodicesima edizione del festival internazionale Kino Otok – Isola Cinema, tenutasi dall’1 al 5 giugno a Isola, in Slovenia, Giuseppe M. Gaudino è quello che più di tutti è parso interessato alle reazioni degli spettatori accorsi nella cittadina sulla costa adriatica.

Affiancato da Isabella Sandri, il regista ha partecipato con evidenti entusiasmo e curiosità alle proiezioni di Per amor vostro, il suo secondo lungometraggio, già premiato alla scorsa Mostra di Venezia (Coppa Volpi all’attrice protagonista). Un film sull’ignavia, come lui stesso lo ha più volte definito, la cui protagonista Anna (Valeria Golino) risponde alla voce della coscienza e trova la forza di reagire e uscire dal limbo di una Napoli mai così grigia. La presenza a Isola di Gaudino ha fornito l’occasione per un breve dialogo sul suo cinema e sul suo rapporto con il pubblico.

Con Per amor vostro hai letteralmente girato il mondo. Quali sono state le reazioni che più ti hanno colpito?

Posso dirti la differenza tra i pubblici. Per esempio, in America Latina o in Sudafrica le reazioni sono state più di pancia. In Brasile una donna creola mi ha raccontato la sua esperienza, simile a quella di Anna: lei capiva bene che per lungo tempo una persona non riuscisse ad affrancarsi da una situazione come quella raccontata nel film. In Europa c’è stata invece attenzione al perché intellettuale. Comunque non ho visto difficoltà a raggiungere la nostra storia. E questo, come autori, ci rassicura. In fondo, perché si fa cinema? Per stare insieme, per comunicare e non per compiacersi del proprio virtuosismo.

In Italia però ci si è concentrati soprattutto sulle tue scelte stilistiche e sul rapporto tra Anna e Napoli.

Sì, la domanda classica è “Perché Anna e perché Napoli?” Poi in Italia siamo sempre più individualisti e desiderosi di incasellare le cose. Anche il nostro voler distinguere tra forma e contenuto è un grave problema. Nel grande cinema i due aspetti vanno insieme, sono l’uno nell’altro.

C’è poi chi l’ha buttata sul sociologico o chi ti ha accusato di sfruttare il linguaggio popolare rinunciando alla lucidità critica.

Ma io non ho speculato sulla sceneggiata: l’ho usata per rendere più riconoscibile il problema. Se avessi fatto un discorso alla Petri, il mio sarebbe stato un film di denuncia. Usare un genere non è infamante, e io non l’ho fatto per avere più pubblico. Stessa cosa per Valeria: l’ho usata per la sua bellezza e bravura, e perché potevo trasformarla in mostro, in contenitore del suo stesso male. E così anche per le canzoni e per Napoli, che è una città piena di contraddizioni, allo stesso tempo così bella e così cupa e al di sotto di se stessa. Non sono un sociologo. Mi interessa agganciare le persone, e non abbandonarle.

Sono passati vent’anni da Giro di lune tra terra e mare, il tuo primo film. Artisticamente, è un’eternità. Ti senti un regista diverso?

No, non sono cambiato. Sono diventato più rigoroso – questo sì. Credo di non aver perso la lucidità. E ho imparato che cosa significa gestire la parola, il suono. Io ho sempre saputo quello che volevo e quello che non volevo.

E il tuo rapporto con gli spettatori?

Ho imparato come si stanca il pubblico. Agli inizi, anche prima di Giro di lune, ero più arrogante – “Questa è la mia visione, o la accettate o niente”. Adesso, volendo comunicare di più, ho capito che alcune dilatazioni ed ellissi non posso permettermele, perché perdo l’attenzione. Ma ti parlo di uno spettatore che partecipa.

Perché il pubblico nel frattempo è cambiato.

Sì. Si sono creati pubblici di nicchia. E’ cambiato anche il modo di produrre: qualsiasi cosa ora è argomento per il cinema. Il mercato è molto vasto e il pubblico è diventato più esigente, capisce subito se non sei in sintonia con lui.

Hai bisogno di uno spettatore che si lasci andare.

Che sia se stesso. Che sia curioso. Mica deve sempre applaudire – può anche dire di no. Però credo che le persone abbiano momenti in cui possono lasciarsi andare, credo nella loro intelligenza. Io chiedo all’essere umano di essere intelligente il più costantemente possibile.