Chiunque abbia scritto la sceneggiatura di Italia-Serbia (diretta RAI), dovrebbe lavorare a Hollywood, non alla televisione di stato. Erano anni che non si vedeva uno "spettacolo" così: la cronaca di una partita mai giocata, un copione a prova di bomba (carta), esaltato dalla nevrosi degli interpreti, l'accumulo di colpi di scena, l'icasticità della scena, il parossismo della diretta e l'imprevidibilità di un villain scimmiesco e incappucciato, uno che nelle brigate della morte di Carpenter non avrebbe sfigurato, l'uomo nero. E poi la mano di Dio in regia (non quella di Maradona) su intercessione di Hitchcock. E ritmo, tensione e suspense.
La drammaturgia prevede un antefatto? Qui ne abbiamo addirittura due: venerdì la violenta contestazione dei tifosi di casa dopo la sconfitta della Serbia (1-3) per mano della poco quotata Estonia con pesanti minacce al portiere Vladimir Stojkovic, reo di aver commesso qualche errore di troppo (e qui abbiamo il gangster-movie, la faida interna, il regolamento di conti); domenica scorsa il secondo decisivo prologo, apparentemente slegato dal primo (in montaggio parallelo?): il corteo del gay pride che sfila per le vie di Belgrado viene funestato dall'intervento degli ultranazionalisti serbi che malmenano chiunque capiti sulla loro strada. Gli stessi, si scoprirà dopo, che avrebbero innescato a Genova disordini e fuochi, panico e adrenalina. Ecco il sottotesto politico, condito da striscioni sul Kosovo, bandiere che bruciano, braccia tese e sinistri tattoo. Puntuale il contributo delle voci fuori campo e "dal campo" di Mazzocchi e Dossena, Gentili e Collovati, Goria e Capaldi, mentre ci ricordano che quella era la serata del commiato, della memoria dei quattro soldati italiani morti in Afghanistan, il cui tributo era già in calendario: un minuto di silenzio prima della partita. Ma quelli non vogliono, fanno saltare tutti i programmi, e l'italiano RAI si scalda, si indigna, grida vendetta. L'aria è satura di cattivi pensieri. Sul conto del povero Stojkovic giungono intanto notizie allarmate: l'hanno preso? L'hanno colpito? E' in ospedale? Perchè non gioca? Il mistero s'infittisce.
Le invasioni barbariche vanno in scena in prima serata al posto del consueto dai e dai di tocchetti e palle alte, colpi di testa e gioco duro. L'uomo nero, armato di taglierino, torce, bicipiti e dio sa che altro, minaccia di avventarsi sui buoni, la gente normale, seduta composta negli altri settori, famiglie soprattutto (la retorica della famiglia e degli innocenti - la scolaresca di bambini al seguito dei propri beniamini azzurri - sarà il refrain dei telecronisti). Spaccano anche i vetri infrangibili (la telecamera quei vetri franti e affranti li inquadra per pochi interminabili secondi, quanto basta per far esplodere connotazioni e oscuri presagi: e ora? Che faranno dei cocci di vetro? Passeranno dall'altra parte, li useranno sui tifosi buoni, anzi "tifosi" e basta?). E la polizia che fa, quando arrivano i nostri? Intanto non si gioca, e chi mai potrebbe giocare in quell'inferno?
La concitazione cresce, "Capaldi fatti valere", e il povero Capaldi cerca di forzare il blocco, superando la linea Maginot degli addetti alla sicurezza, in cerca di informazioni, indizi, ipotesi di nuove più tragiche sventure. Viene ricacciato indietro, impietosamente, da quegli stessi uomini che "però han fatto entrare gli altri, i facinorosi" (Mazzocchi). Ma intanto la telecamera coglie idranti che sembrano serpenti, e l'avanzare minaccioso della polizia in assetto antisommossa: arrivano i nostri, si avvicinano alla Curva del Male, la fronteggiano, elmetti e scudi, manganelli e sguardo fiero. Minuti e minuti di attesa, di campo e controcampo, orda di belve nere da una parte, esercito di uomini blu dall'altra. Le provocazioni crescono al cospetto di un'impotenza che sfiora l'imbarazzo. Perché nessuno fa niente? Ecco allora che la mano ignota della sceneggiatura cala il suo asso: la polizia si avvicina minacciosamente all'ingresso della curva infestata, troppo vicino. Potrebbe entrare ma il rischio è alto: qualcuno, dicono, sta per farsi male sul serio. E poi c'è la parola Fine del Mondo, che temibile rimpalla da un microfono a un altro: "Heysel...". Siamo al vertice della tensione. Scolpita da un dettaglio che il buon Mazzocchi si premura di far notare: "Alza, alza l'inquadratura", grida al regista. Ed eccoli lì, assiepati, nascosti, alla destra della ressa selvaggia, un manipolo di poliziotti pronti all'assalto finale. Intervengono? Macché, altro colpo di scena: le squadre rientrano in campo, si gioca. Incredulità, smarrimento, vergogna (la vergogna sarà l'altro grande ritornello della serata). I giocatori si dispongono sul rettangolo di gioco, tesi e rabbuiati. Poco prima la nazionale serba era andata sotto lo spicchio di stadio occupato dai propri supporters per applaudire e fare il gesto "del tre". Parentesi interlocutorie, che hanno il merito se non altro di generare equivoci, ammassare dilemmi. La partita durerà sei minuti, il tempo di vedere un'entrata killer e un rigore non visto dall'arbitro. Poi piovono bengala: il primo nel vivo dell'azione, area azzurra, il secondo a pochi centimetri dal nostro terrorizzato portiere. L'arbitro dice che no, così non si può continuare. Le squadre salutano il pubblico e tornano negli spogliatoi. Manca ancora l'ufficialità, che aspettano? Pazzesco.
Scorrono fiumi di buon senso e retorica, c'è persino tempo di raccontare la straziante storiella della bambina venuta dalla Serbia in Italia per vedere i propri beniamini. Si protrae il blackout delle informazioni. Tutto fa spettacolo. Fino al grottesco finale: Capaldi non fa in tempo a dire che si potrebbe tornare a giocare di nuovo che, inopinatamente, un giocatore azzurro gli passa davanti, fresco di doccia e uscendo di scena trolley alla mano e vestito elegante. E' l'ultima chicca di sceneggiatura. Poi a casa, per stasera può bastare. 13 milioni di italiani hanno assistito alla più emozionante partita mai giocata. La spettacolarizzazione perfetta di un fatto banale. E dove il calcio ha perso, ha vinto la RAI.