“Questo film non è contro l’ONU, vorrei le Nazioni Unite migliorassero, abbiamo bisogno di questa istituzione, dovessimo crearla oggi non ci sarebbe, temo, la volontà politica. Non riusciremmo a farlo, dunque, dobbiamo cercare di nutrire, rafforzare l’ONU”. Parola della regista bosniaca Jasmila Žbanić, che porta in Concorso a Venezia 77 Quo vadis, Aida?.

Nel cast Jasna Đuričić, Izudin Bajrović, Boris Isaković e Johan Heldenbergh, la regista già Orso d’Oro con l’esordio Il segreto di Esma nel 2006 ci riporta, nel venticinquesimo anniversario, al genocidio di Srebrenica avvenuto nel luglio del 1995, allorché le truppe serbe guidate dal generale Mladic massacrarono circa ottomila bosniaci, in prevalenza uomini e ragazzi.

Nel film, Aida (Jasna Đuričić) è un’interprete che lavora alle Nazioni Unite nella cittadina di Srebrenica, quando l’esercito serbo occupa la città, la sua famiglia come migliaia di cittadini cerca rifugio nell’accampamento Onu, ma sarà davvero un rifugio?

Quo vadis, Aida? è dedicato alle donne che hanno perso figli, mariti, effetti. Credo ci siano tanti film dal punto di vista maschile, ma come donna, e sopravvissuta a Sarajevo, io non mi ci identifico. Ci riempiono di bugie sulla guerra, con dichiarazioni politiche che portano al conflitto, una cosa che non mi ha mai permesso di identificarmi: avevo bisogno della prospettiva di una donna, ho sentito la necessità di parlarne”, dice la Žbanić.

Per la sua Aida, ovvero Jasna Đuričić, “ci sono testimonianze, libri, so tutto di Srebrenica, ma mi manca sempre una piccola parte della storia: non avendovi preso parte, i sentimenti vi mancano. Il film lo permette, a me e a voi. La Žbanić  è esperta, va dove nessuno vuole andare. Parla di tutti noi questa storia”.

Boris Isaković, che interpreta Mladic, afferma: “Ci saranno dubbi sulla verità del film nella ex Jugoslavia, io posso dire a chi avesse dubbi che basta apra YouTube, e cerchi i filmati su Mladic. Ho insistito sulle sue parole esatte nei filmati del 1995, non ho cambiato nemmeno l'ordine delle parole, ho voluto mantenere un estremo realismo. Mi sono fatto guidare dalla storia, chiarissima, e ho cercato un approccio fisico al personaggio”.

Sulla genesi del film, la regista rivela: “Alcuni personaggi non mi hanno voluto parlare, ho incontrato loro avvocati, ma anche tanti soldati ONU, e qualcuno mi ha detto di aver pianto. Volevo mostrare la storia dal punto di vista delle donne, i fatti sono stati integrati dalla fiction”.

Sulle responsabilità dei Caschi blu olandesi, aggiunge: “C'era chi poteva cambiare situazione, la missione prevedeva la protezione della popolazione con le armi, ma non venne sparata nessuna pallottola. Ci sono soldati che hanno subito lo stress post traumatico, si sentono in colpa. Le limitazioni politiche furono determinanti, ma le truppe canadesi si comportarono diversamente, hanno fatto entrare civili e li hanno protetti. Anche con limitato spazio d'azione c'è sempre la libertà di essere empatici, solidali, anche se abbiamo governo di destra, fascisti come nella nostra regione. Nel ‘95 non è accaduto, le truppe olandesi non hanno avuto empatia per popolazione, avevano pregiudizi verso i musulmani bosniaci”.