"Il cinema è solo la metà della mia vita. Nel tempo libero sono neurochirurgo, ma da figlio della Nouvelle Vague il cinema non poteva che essere l'arte della mia generazione. Che ho sempre affrontato da autodidatta e, non a caso, 10 degli 11 film che ho realizzato sono ricostruzioni di alcuni aspetti della mia vita". Questa volta però, con Sorrow and Joy (in concorso al Festival di Roma), il danese Nils Malmros ha deciso di raccontare l'avvenimento più traumatico della sua esistenza, la morte di sua figlia, avvenuta per mano di sua moglie. "Sì, è la storia vera di quanto accaduto nel 1984, quando mia moglie in una condizione di psicosi uccise nostra figlia, di appena nove mesi. Allora, tutti mi dissero che un giorno avrei dovuto tradurre quel dolore in qualcosa di artistico. Per farlo, però, ho dovuto aspettare che mia moglie andasse in pensione, che smettesse di insegnare e, soprattutto, che fosse lei a dirmi di realizzare il film", dice ancora il regista, che aggiunge: "Con questo film ho voluto raccontare soprattutto come sia possibile costruire un amore corrisposto e maturo attraverso immenso dolore e gioia. Può sembrare esagerato, ma so certamente che le mie parole sono legittime".
Perché quello che il film mette in luce, partendo da quella tragedia, è proprio il percorso successivo e gli episodi precedenti al dramma: Johannes (Jakob Cedergren) è un regista affermato, sua moglie Signe (Helle Fagralid) una donna con difficili trascorsi dal punto di vista della salute mentale. Dieci anni prima del loro incontro, la donna aveva tentato il suicidio ma ora sembra aver riacquisito il proprio equilibrio e la tranquillità: che cosa cambia durante la loro relazione? Perché, dopo il matrimonio e la nascita di Maria, la condizione di Helle risprofonda nel baratro? "Mia moglie aveva detto che non avrebbe mai visto il film finito, ma naturalmente poi l'ha visto insieme a me: ha pianto nei punti in cui era giusto piangesse e poi mi ha detto che questa era una vittoria per entrambi", racconta ancora Nils Malmros, consapevole di essere una "persona alla ricerca del passato, del tempo perduto" e fiero depositario di una massima mai come in questo caso calzante: "L'amore vince su tutto". E verso la fine del film, in quella scena ambientata nel 2010 in cui il marito è invecchiato e lei sembra essere rimasta quella di 26 anni prima, si capisce perché: "Ai miei occhi lei non è mai invecchiata, quello che conta è il fatto che sia cambiata nel modo in cui parla e si comporta, è diventata un'adulta", conclude il regista.