C’è stato un momento, prima della rivoluzione, in cui nessuna era come Catherine Spaak.

C’era stata Jacqueline Sassard, la prima delle ninfette, lolita ante litteram, l’adolescente borghese alle prese con i primi problemi di cuore. E ci sarebbe stata, qualche anno dopo, Stefania Sandrelli, coetanea ma in qualche mai davvero ragazza, oggetto del desiderio maschile capace però di calibrare umorismo e passione.

Ma nessuna, davvero nessuna, è stata come Catherine Spaak (morta ieri, 17 aprile, all'età di 77 anni). Nessuna come lei ha incarnato le gioie e i dolori dell’adolescenza, la malizia e l’ingenuità, la provocazione e la naturalezza, il candore e la sensualità. Borghese, anzi borghesissima (figlia di Charles, sceneggiatore per Renoir, Duvivier, Grémillon e di molto “cinéma de papa”), allure francese eppure belga (lo zio Paul-Henri fu primo ministro), nel 1960 fu scelta dall’amico di famiglia Alberto Lattuada – già pigmalione di Sassard – per I dolci inganni, coming of age super censurato che testimonia le risonanze della nouvelle vague all’apice della nostra produzione.

Fu - è - un film capitale, I dolci inganni, perché svelava la vita segreta delle ragazze di buona famiglia, ne indagava i turbamenti sentimentali, raccontava l’avventura di un corpo desiderabile che finalmente si scopre esso stesso soggetto attivo di un desiderio.

Acerba e curiosa, schietta e consapevole, romantica e volitiva, Catherine Spaak rassicurava perché spostava l’origine dello scompiglio in luoghi esotici, ovvero oltralpe dove i costumi erano più disinibiti mica come nell’Italia ancora sospesa tra ruralità e avvisaglie di boom, e al contempo turbava perché prestava la sua immagine sbarazzina a una generazione di ragazze italiane che si riconoscevano nella sua volontà d’emanciparsi.

Di lì in poi, Spaak divenne davvero un’icona di un'intera epoca, modello da emulare per connettersi sulle frequenze di un mondo in trasformazione, esempio da seguire contro le convenzioni imposte da adulti che avevano annichilito il diritto alla fantasia e il bisogno di liberarsi. Dettava la moda, imponeva il caschetto biondo, sdoganava il sorriso irregolare. Metteva in crisi i maschi, i figli e soprattutto i genitori, come Vittorio Gassman che fece suo padre (assente) ne Il sorpasso. E il momento in cui, in spiaggia, tenta un approccio non riconoscendola è sottilmente inquietante e offre davvero una esaustiva chiave di lettura del protagonista.

Ne Il sorpasso, Spaak compare dopo la metà, eppure irrompe nella locandina come se fosse più presente di quanto effettivamente sia. Ma la figlia di Bruno Cortona è un personaggio decisivo per capire tutta la storia: è il fallimento incarnato del padre, si fidanza con un uomo più grande per un motivo ovvio quanto drammatico, tratta Bruno come un cialtrone simpatico ma irrecuperabile, illumina la giornata di Roberto (Jean-Louis Trintignant) per indicargli una via alternativa all’ordine costituito.

Catherine Spaak e Vittorio Gassman (Webphoto)

Che dire de La voglia matta, in cui appena diciottenne sconquassa la vita del quarantenne Ugo Tognazzi, accompagnandolo sul baratro della crisi. E come dimenticare La noia: nessuna come lei ha incarnato l’universo moraviano, incedendo spargendo sesso, distesa sul letto coperta di banconote in un’immagine rimasta leggendaria.

Con La parmigiana, Antonio Pietrangeli le diede il ruolo della vita: civetta e pragmatica, leggera e sensuale, provinciale e internazionale, in un’Italia bigotta e ingorda sa quello che vuole anche se non lo sa bene, si fida eppure inciampa ma comunque non s’indigna, cerca di rialzarsi ogni volta nonostante tutto e nei modi più discutibili, combatte con i maschi mentre li ama o semplicemente si fa amare.

In un cinema maschile e maschiocentrico, si conquista un film a episodi tutto per lei (3 notti d’amore), alterna singolarità d’autore (il maledetto e splendido Break up di Marco Ferreri, il bizzarro e irrisolto Non faccio la guerra, faccio l’amore di Franco Rossi) e super produzioni (il capolavoro L’armata Brancaleone di Mario Monicelli, Madamigella di Maupin di Mauro Bolognini), stringendo un sodalizio con il colto e popolare Pasquale Festa Campanile, da Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare a Adulterio all’italiana fino a Con quale amore, con quanto amore e La matriarca, irresistibile commedia sessantottina in cui è una simpatica e disinvolta erotomane che si ritrova progressivamente sempre più nuda, svelando più l’inesperienza che la purezza, consapevole che il corpo le appartiene ma il cuore pure ha le sue ragioni.

Catherine Spaak in L'armata Brancaleone (Webphoto)

Colta, acuta, brillante, capace di misurarsi con la commedia musicale (accanto all’allora compagno Johnny Dorelli trionfa in Promesse... Promesse..., scritto da Garinei e Giovannini, cantando l’ottimo adattamento nostrano di I’ll Never Fall in Love Again), nemmeno trentenne era già diventata grande, ma lascia ancora il segno in Certo, certissimo, anzi... probabile, Il gatto a nove code, La via dei babbuiniFebbre da cavallo.

Divenne signora dei salotti televisivi, con una gentilezza e un fascino senza pari, e frequentò la fiction, soavemente. Oggi che non c’è più ci piace ricordarla come l’incarnazione stessa della giovinezza, in quel momento, prima della rivoluzione, in cui nessuna era come lei, mentre si lamenta, pigra e erotica, con la voglia matta di vivere ancora: “Che rabbia, l’estate è finita”.