Più che un racconto, L’uomo che rubò Banksy è stato “inseguire una storia che si auto-alimentava, che diventava qualcosa di diverso proprio mentre la inseguivamo”. Il regista Marco Proserpio presenta al Torino Film festival 2018 il suo esordio, un documentario che parte dal murales che Banksy dipinse a Betlemme nel 2007, raffigurante un soldato che chiede i documenti a un asino, e riflette sulle contraddizioni insite nell’opera dell’artista e nella street art in generale, sulla sua natura e sul suo valore, sul rapporto mutevole e sfuggente con il pubblico e con l’arte in generale.

“Ero a Gerusalemme in un taxi vicino a un check-point e ho conosciuto Walid, il tassista, che mi ha raccontato di aver appena rimosso il muro su cui aveva dipinto Banksy per venderlo. Da lì mi sono venuti in mente una serie di aspetti interessanti sulla proprietà, la disponilità dell’arte, il valore di un’opera illegale e senza autore, ma anche sulla Palestina e sul contesto in cui si crea arte”. Questa serie di riflessioni ha fatto partire ricerche e incontri che hanno impiegato 6 anni circa per diventare un film.

Incontri di cui Proserpio ha voluto tenere conto dando voce a tutti quanti avessero un ruolo nella lavorazione, vendita o collezione di opera di street art: “La pluralità è una delle regole base della strada e io l’ho rispettata facendo parlare i vari lati e le varie facce della questione, esperti, critici, galleristi, proprietari eccetera”. Ma altrettanto importante è il ruolo politico dell’arte e dell’opera di Banksy e la Palestina, raccontata fuori dagli schemi tradizionali della guerra e della vittima, è un luogo ideale in cui approntare ulteriori riflessioni: “Siamo tornati in Palestina molte volte, perché il fatto che l’opera non avesse certificati, documenti, identità certe anche per quanto riguardo i compratori ha fatto sì che il centro della storia lo perdessimo varie volte, era indipendente da noi, costringendoci a vari escamotage (tra cui inventarsi un finto trailer e finte recensioni del film) per ritrovarla”.

Un film punk, in cui Banksy è solo un’esca e la forma viene solo dopo il contenuto, e che in nome di questa attitudine può vantare la voce di Iggy Pop come narratore: ”Ha una voce suadente e rassicurante, in contrasto ironico con il ritmo del film e poi ci sembrava fosse simbolico dello spirito del nostro film”. L’uomo che rubò Banksy più che documentare, sceglie il cinema e la forma documentaria come terreno di riflessione, spazio saggistico aperto a più voci, che pone molte domande ma non dà risposte: “Non abbiamo ancora una chiara posizione sulle questioni che abbiamo posto. L’unica cosa da fare è continuare a cercare e riflettere”.