Crash, che ora viene presentato restaurato a Venezia 76, lo vidi per la prima volta in vhs ventidue anni fa. Lo ricordo bene, perché con qualche compagno di liceo scegliemmo quel film di David Cronenberg per passare insonne – Brizzi non c’era ancora, Venditti sì – la fatidica notte prima degli esami. Maturità, anno 1997.

Fu a tal punto folgorante la visione, che oggi non so dire con irrefutabile certezza se Crash l’abbia rivisto: tutto quel che ricordo viene da quella notte. Fu come assistere – ci ho quasi lasciato un incisivo alle giostre, so di che parlo – a un inedito e inaudito autoscontro con gli esseri umani al posto delle macchine. Uomini e donne non si ferivano, piuttosto si ammaccavano e accartocciavano: con questa sorta di sinestesia Cronenberg salutava l’interazione uomo-macchina novecentesca e ci traghettava nel Terzo Millennio, superando il romanzo di James G. Ballard in corsia d’emergenza e trasformando Videodrome (1983) in una sorta di Autodrome con carni-lamiere.

Continuo a credere, peraltro, di aver visto un Transformers per adulti, di avervi guardato le macchine scopare, e forse non ho torto: “Serbo nell’intimo la convinzione che le due cose più filmate nella storia del cinema siano il sesso e le automobili”, confessò il Nostro ai Cahiers du Cinéma.

Oggi, che l’abbia rivisto o meno poco importa, credo qualcosa di più, che Crash di David Cronenberg c’entri tantissimo con quanto postulato da André Bazin nel 1946 in Ontologia dell’immagine cinematografica. Ovvero che il cinema fissando “artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per “strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita” ci aiuti a “rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio” e dunque a difenderci dal tempo. Da qui il sommo critico francese desunse il tabù cinematografico per la morte e l’atto sessuale, che sono “la vittoria del tempo”; da qui il sommo regista canadese provò a trasgredire quel tabù, con carni e lamiere a fornicare e – provare a – morire. ù

David Cronenberg

Di tempo, sempre di tempo, si tratta: non c’è moviola, non c’è ralenti, dunque, non c’è Crash-test, bensì rapidità, brutalità, (im)prevedibilità. Cronenberg cerca di dribblare Bazin, ma senza sotterfugi: Crash non succede, è già successo, è istantaneo nell’accadimento e accaduto nella percezione. Insomma, prova a non riprodurre. Cerca, insomma, non il miracolo della scena, ma il miracolo dell’osceno, e solo all’apparenza contro il Bazin che “la rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica”.

Non è Crash un film di incontri sessuali né di scontri automobilistici, bensì un incidente: non “l’evento inatteso che interrompe, talvolta con grave danno, un regolare svolgimento”, perché al contrario è cercato, ma l’incontro di due rette – siano corpi, auto o destini – e il participio presente di incidere. Un taglio, nell’immaginario collettivo.