Nessuno tocchi il fashion film. Nessuno provi a menomarlo, ché asservito alla committenza modaiola, nessuno provi a delegittimarlo, ché piegato alla veicolazione di questa o quell’altra collezione. Nessuno tocchi il fashion film, s’intende, a patto che lo si sappia fare.

No, non sempre lo si sa: per dirne due, Ouverture of Something That Never Ended, recente serialità breve di Alessandro Michele e Gus Van Sant per Gucci, malgrado il sempre interessante Paul B. Preciado e la sempre brava Silvia Calderoni, non s’eleva dalla funzionalità spiccia, malgrado l’apparente sprezzatura non si leva dal sospetto dell’album di famiglia, pardon, testimonial, della serie “Michele & Friends”; gli annosi Women Tales di Miu Miu stracchi anzitempo, ormai mero megafono di #MeToo e altre cause dimezzate. Ci sono, invero, esempi virtuosi, come The Staggering Girl di Luca Guadagnino e Pierpaolo Piccioli (Valentino), e c’è, poi, l’eccellenza.

Le Château du Tarot (The Castle Of The Tarots), diretto da Matteo Garrone per presentare la Dior Spring Summer 2021 Haute Couture Collection di Maria Grazia Chiuri lo è.

Con ambientazione, humus e grazia che riecheggiano Il racconto dei racconti, Garrone tiene saldo il dittico del suo cinema, epifania e incantamento: evento e poesia, apparizione e trasfigurazione, fissando nella stoffa i sogni, nei sogni la carne, nella carne la possibilità. Al Castello di Sammezzano, già contemplato nell’adattamento da Basile, mette – letteralmente – in scena i tarocchi, elevando a potenza, nel minutaggio ristretto, nell’assenza di dialoghi, nella committenza salda e geometrica (ah, i produttori…), nella libertà di poter mostrare e basta, la propria sapienza pittorica (ispirazione dai tarocchi Visocnti-Sforza di Bonifacio Bembo del XV secolo), l’estro carnale, la leggerezza pastosa.

Protagonista, doppia e deliziosa, Agnese Claisse, figlia di Laura Morante, i contributi di Nicolaj Brüel (fotografia), Dimitri Capuani (scenografia) e Marco Spoletini (montaggio) sono fondamentali, per tacere di Andrea Farri, forse il più talentuoso dei giovani compositori nostrani, cui si deve una colonna sonora avvolgente e conturbante.

Si è non solo innamorati, non solo avvinti, ma convertiti, dal Castello dei Tarocchi, a una nuova, però antica Bellezza, ancor più sfuggente in questo tempo pandemico.

Matteo Garrone

Il miglior compendio è Winckelmann, l’elementare scaturigine una conferma: Matteo Garrone è il più bravo. Nella misura in cui la propria grandezza, a differenza di colleghi e/o epigoni, sta nel girare da coevo la Storia. E la Bellezza. È consustanziale. Non classicista, non postmoderno, è classico. È come appare, non c'è iato, non c'è distacco: è arte, senza sforzo, con carne. E possibilità.