Giuseppe Tornatore racconta che Jacques Perrin, chiamato all’ultimo per interpretare Totò adulto in Nuovo cinema Paradiso, si presentò in Sicilia con i vestiti del suo guardaroba. La produzione era stata molto sofferta, il budget lievitato rispetto a quello preventivato, i soldi praticamente finiti e per di più mancava qualcuno che desse il volto al protagonista nella seconda parte del film, in origine lunga quasi un’ora.

Ma Perrin – che non aveva nemmeno cinquant’anni ma se ne portava dietro tanti altri, come tutti gli attori che iniziano giovanissimi – non si fece problemi e volò dalla Francia, prese il minimo sindacale e permise al giovane regista di portare a casa il film. Il resto è storia.

È un aneddoto che spiega bene il profilo umano e professionale di Jacques Perrin, scomparso ieri, 21 aprile, all’età di 80 anni. Ne definisce la generosità, certo, ma anche l’intuito.

Perché Perrin fu attore, certo, e lo fu all’apogeo del cinema italiano, a cui diede molto e dal quale ha ricevuto altrettanto. E diventò figura apicale di quello europeo decidendo, nemmeno trentenne, di farsi produttore avventuroso e militante, se si pensa agli autori che sostenne sia dietro che di fronte la macchina da presa. In un certo senso l'indimenticabile scena finale del film di Tornatore, con la proiezione dei baci tagliati, ci dona l'idea di un cinema libero e senza censure che Perrin difese per tutta la vita, vivendolo e facendolo vivere fino in fondo.

Jacques Perrin e Marcello Mastroianni in Cronaca familiare (Webphoto)

In un cinema dominato dai quarantenni, mentre gli italiani suoi coetanei erano impegnati soprattutto in teatro e negli sceneggiati, Perrin sopperì all’assenza di ventenni romantici e borghesi pronti per il grande schermo e, grazie ai vincoli delle coproduzioni, portò in dote l’eleganza innata degli aristocratici francesi, la malinconia degli adolescenti tormentati, una profondità che evocava gli eroi della grande letteratura da Stendhal a Flaubert.

In continuità con Gérard Philipe (nato nel 1922) e Jean-Louis Trintignant (classe 1931), Perrin si prestò al racconto intimista della complessità della giovinezza. Un po’ come Jacqueline Sassard e Catherine Spaak (sua partner nel dimenticato La calda vita di Florestano Vancini, da riscoprire), ma anche i più selvaggi Claudia Cardinale e Tomas Milian, ci voleva uno straniero per restituire quel tipo umano all’immaginario italiano.

Pensiamo solo a due memorabili ritratti nella prima parte degli anni Sessanta: il sedicenne Lorenzo Fainardi, orfano di madre travolto dalle conseguenze del primo amore e consumato dalla gelosia per La ragazza con la valigia; e Dino, ribattezzato (anche lui!) Lorenzo, un altro orfano, destinato alla morte (“Se un giorno volessi dell’erba non crescerebbe più sui prati”) ma anche alla riconciliazione con il fratello perduto in Cronaca familiare.

Entrambi diretti da Valerio Zurlini, regista che lo valorizzò come pochi e che ricorse a lui per mettere su l’ultimo film, Il deserto dei tartari, di cui fu protagonista nel ruolo di Drogo e produttore piuttosto coraggioso. Ma al cinema italiano ha regalato anche lo Stefano del cupissimo La corruzione di Mauro Bolognini, neodiplomato che vorrebbe farsi prete per sopravvivere all’orizzonte cinico del denaro, e il Michele di Un uomo a metà di Vittorio De Seta, intellettuale perso nei frammenti del passato (vinse la Coppa Volpi a Venezia).

Paradossalmente trovò meno personaggi forti in patria, a parte qualche occasione (317º battaglione d'assalto di Pierre Schoendoerffer, La schiuma dei giorni di Charles Belmont) e le due incredibili collaborazioni con Jacques Demy, che ne esaltò l’iconografia efebica: è un marinaio ossigenato alla ricerca della donna ideale in Josephine e il principe eccentrico in La favolosa storia di Pelle d’Asino.

Fondamentale, tuttavia, l’incontro con Costa-Gavras: lo assiste nei suoi primi film, prima solo come interprete in Vagone letto per assassini e Il 13° uomo e poi anche producendo il capolavoro del cinema politico Z – L’orgia del potere (vinceranno l’Oscar come miglior film straniero in quota algerina) e i successivi, altrettanto straordinari, L’amerikano e L’affare della Sezione Speciale.

Jacques Perrin in Les Choristes - I ragazzi del coro (Webphoto)

Di lì in poi Perrin si impone come produttore indipendente e corsaro – e a volte anche attore – per autori come Paul Vecchiali (L'étrangleur), Benoît Lamy (Home Sweet Home), Yves Courrière e Philippe Monnier (il documentario La guerre d’Algérie), Marc Grunebaum (L’adoption).

Dimostrando, per l’appunto, una spiccata sensibilità nel dare voce al cinema del terzo mondo, compreso quelli dei territori ex coloniali: il debuttante Jean-Jacques Annaud con la rievocazione nel Camerun francese di Bianco e nero a colori (altro Oscar in rappresentanza della Costa d’Avorio), il libanese Maroun Bagdadi per La vita sospesa, il maestro senegalese Ousmane Sembène con Guelwaar.

Fino alla passione per i documentari sulla natura, realizzati con dispostivi mai utilizzati prima per immortalare le vite delle creature più inafferrabili all'occhio, con i fortunati e pionieristici Microcosmos di Claude Nuridsany e Marie Pérennou, Himalaya di Éric Valli, Il popolo migratore che diresse con Jacques Cluzaud e Michel Debats, La vita negli oceani co-diretto con Cluzaud.

Da attore lascia ancora il segno come Ugo Bassi ne In nome del popolo sovrano di Luigi Magni, magistrato ucciso in Il lungo silenzio di Margarethe von Trotta, papà in ansia ne La corsa dell’innocente di Carlo Carlei. Come nel film di Tornatore, è ancora la versione adulta di un giovane protagonista in Les choristes – I ragazzi del coro di Christophe Barratier e in Remi di Antoine Blossier: naturale per un vero protagonista del cinema europeo, indissolubilmente legato all’immagine della giovinezza.