Non esistono schieramenti, ma solo impegni di pace per la regista francese Lorraine Lévy, che nel suo ultimo film porta su grande schermo il conflitto tra Israele e Palestina, come racconta durante l'incontro con la stampa romana. Il figlio dell'altra, presentato fuori concorso al Torino Film Festival, esce in sala il 14 marzo per Teodora Film sia in versione originale con sottotitoli che in italiano e racconta la storia di due adolescenti, uno israeliano e l'altro palestinese, che capiscono di essere stati scambiati alla nascita. La storia s'ispira a fatti realmente accaduti nel 1991, quando molti reparti maternità furono evacuati a causa dei bombardamenti.
Scoprire e riscoprire le proprie radici mettendosi fisicamente nei panni di colui che fino ad un attimo prima è stato il nemico offre ai protagonisti molti spunti di riflessione e permette al pubblico di abbassare la guardia sui pregiudizi senza giudicare. Per Lévy il premio più atteso da questo lavoro è uno solo: promuovere il dialogo nel rispetto delle diversità. “Ho avuto la fortuna di incontrare giovani palestinesi e israeliani – ha raccontato la regista – e a loro affido la speranza per il futuro. Hanno molto in comune, a partire dalla voglia di essere spensierati, che alla loro età un diritto. Attraverso i social network si rendono conto che esistono posti dove si vive meglio e aprono i loro orizzonti. La fiducia nelle nuove generazioni è fondamentale per il dialogo, soprattutto in un momento in cui le minacce non sempre arrivano da dove se ce le aspettiamo”.
Durante la produzione della pellicola alcuni episodi hanno particolarmente lasciato il segno nei suoi ricordi: “Ho incontrato intellettuali di entrambe le fazioni e avevo fissato un incontro con Juliano Mer Khamis, direttore del Teatro della Libertà di Jenin, in Palestina. Avrei voluto affidargli il ruolo di uno dei papà del film, ma è stato ucciso il giorno prima del nostro appuntamento durante un attentato fuori dal suo teatro. Aveva 45 anni e agli estremisti palestinesi non piaceva il suo impegnano per il dialogo”.
Le influenze culturali alla base del suo processo creativo non sono comunque mancate, anche grazie al supporto degli scrittori Amos Oz (israeliano) e Yasmina Khadra (algerino), considerati da Lévy “i due padrini del film. Nella sceneggiatura, infatti, sono stati coinvolti due ebrei (la regista e Noam Fitoussi, ndr) e una cattolica, Nathalie Saugeon, ma serviva la voce del mondo arabo e l'ho trovata in Yasmina Khadra dopo aver letto il suo libro L'attentatrice (ed. Mondadori, ndr). Gli ho mandato lo script ed è stato così gentile da leggerlo e da rimandarmelo con le sue annotazioni. Quando l'ho incontrato mi ha detto di averlo molto apprezzato”. L'influenza di Amos Oz, invece, è arrivata attraverso “il suo pensiero per cui un compromesso storico e una pace sembrano possibili. Quando è stato in Francia 10 anni fa ha rilasciato alcune interviste, poi raccolte nel volume Imaginer l'autre. Ne ha comprate dieci copie e le ha distribuite sul set del film per far capire alla troupe quale fosse la sua visione sull'argomento”.
Dopo i consensi del Festival Internazionale di Gerusalemme, la pellicola approderà tra tre settimane al Festival di Tel Aviv ma ancora non ha una distribuzione nei Paesi Arabi. “Nel frattempo - continua la regista - ha ricevuto un'accoglienza molto positiva in rete dal mondo arabo e da quello ebraico. In entrambi i casi mi hanno detto di essersi sentiti rispettati e ho tirato un sospiro di sollievo perché era la mia più grande preoccupazione. Per spiegare la mia posizione prendo in prestito le parole di Amos Oz che ha detto di non essere in favore né di Israele né della Palestina, ma del dialogo. Per questo una delle scene più delicate è stata quella in cui le famiglie si incontrano per la prima volta con i figli. I due attori che interpretano i padri sono entrambi attivi su posizioni opposte e ciascuno di loro durante le prove voleva che il personaggio avesse l'ultima parola nella discussione politica. Non potevo permetterlo e allora ho optato per una scelta in cui alla fine si parlavano uno sopra l'altro rendendo impossibile stabilire chi avesse messo il punto al confronto. Il mio intento è sempre stato quello di ascoltare entrambe le verità”.
Il primo passo per questa convivenza e accettazione è stato realizzato proprio sul set: “Tutti, nel cast e tra la troupe – ricorda con orgoglio la regista - volevano che il film fosse realizzato al meglio, come testimonia un particolare episodio. Il giorno in cui avevo fissato i provini per la madre palestinese, Leïla, è avvenuto un attentato nella stazione degli autobus e tutti i check point sono stati chiusi. Non me la sono sentita di disertare le audizioni anche se tutti mi avevano detto che non si sarebbe presentata nessuna delle dodici attrici che avevo convocato, invece sono arrivate in tre. Areen Omari ha camminato per quattro ore con 40° su per le colline pur di presentarsi all'incontro perché desiderava a tutti i costi far parte dell'incontro. Quando è arrivata da me era visibilmente provata e sfinita e l'interprete era andata via, quindi siamo rimaste solo noi. Non capivo una parola di quello che mi diceva ma aveva un'intensità tale nello sguardo che l'ha resa subito perfetta per la parte. Ecco cos'ho visto sul set: un desiderio di fratellanza condiviso”.