La 55a edizione di Pesaro Film Festival ospita una mostra personale dedicata all’intera filmografia di Lee Ann Schmitt, regista sperimentale americana celebre per il suo approfondimento del rapporto, dentro e fuori dal linguaggio cinematico, tra ambiente e essere umano. Ebbene, il Centro Arti Visive della città ospita oggi, mercoledì 19 giugno, l’intervista del critico Rinaldo Censi alla cineasta, per la prima volta partecipante ad un festival italiano.

In che modo, per la prima volta” comincia l’intervistatore, “ti sei avvicinata al cinema? E come ti sei formata, da quel momento in poi?”

“Inizialmente lavoravo in una compagnia teatrale di sette donne.” replica la regista, “Usavamo fabbriche abbandonate, chiese e altri posti non ortodossi. È così che è entrato nel mio occhio il paesaggio, a contatto con il gesto dell’uomo. Mi ha affascinato scoprire come un posto, e una persona, cambia radicalmente se inciso su pellicola. Riprendevo scorci da inserire nelle nostre performance. Non avevo ancora alcuna formazione cinematografica, l’avrei acquisita più tardi, allora dovetti capire come funzionava la pellicola in 16mm.”

“A proposito” interviene a quel punto Censi, “Perché hai scelto da subito di girare in 16mm (formato prediletto dell’autrice, ndr)?”.

“Facevo molta fotografia su larga scala, quindi ero già incline a lavorare su pellicola. Fu una scelta arbitraria discutibile, in fondo il digitale è democratico, la pellicola no. Ma mi piaceva la sua tangibilità, e si avvicina al denominatore comune dei miei film, dare un’idea dell’eco della Storia. Oltretutto, mi piace che i miei film siano tutti lì, fisicamente, appoggiati su uno scaffale a casa mia.”

E poi, come si è sviluppata la sua carriera nella settima arte? “Ho imparato dai miei mentori un sistema etico, non solo professionale. Ho capito che non dovevo più affidarmi a testi o citazioni altrui, ma potevo concentrarmi sull’effetto che il paesaggio ha sulle parole e i gesti delle persone. È stato importante cogliere la dialettica delle due cose, per rappresentarne gli effetti reciproci”.

Da allora, tanti sono i film che esprimono questa relazione conflittuale, ma non è il solo contenuto esplorato da Lee Ann Schmitt. “Tutti i miei film sono estremamente personali. Venivo da Chicago e sono arrivata a Los Angeles, dove puoi stare in un quartiere e non conoscere nessuno. A Chicago c’è più comunità, connessione. L.A. suggerisce un approccio diverso, mi ha spinto a contemplare la città, i suoi luoghi, a prender nota dei nomi, essere curiosa dell’intera California”.

E prosegue: “Sono arrivate le prime idee: perché le persone scelgono un luogo dove vivere? Gli agglomerati urbani californiani si sono sviluppati attorno a poli industriali: come sono cambiate quelle città dopo la chiusura delle fabbriche? Allora non immaginavo la dimensione politica che quel materiale avrebbe acquisito. È stato cruciale per trovare la mia voce, per definire la relazione precisa tra paesaggio e comportamento dell’Uomo”.

The Last Buffalo Hunt (2011), di Lee Ann Schmitt

Un tema trattato anche in The Last Buffalo Hunt, che esplora da vicino, anzi, viviseziona dall’interno la mitologia civile americana. “La narrativa del selvaggio West è fondativa per gli Stati Uniti, ma non aveva motivo d’esistere, il Nord America era stato già completamente mappato dal governo per ragioni commerciali. Mi sono chiesta che senso avesse, allora, la caccia al bufalo, e solo nel mito ho trovato la risposta. Quindi ho mantenuto la cornice ideale, le montagne tipiche del West, mostrando nel frattempo la realtà desolante, che confligge con il mito. È stata una precisa e accurata operazione, scegliere cosa mostrare e cosa no, per non cadere nella tentazione di ri-scrivere la mitologia”.

Diverso, nel metodo e negli obiettivi, l’ultimo suo film, Purge This Land: “John Brown era un radicale abolizionista che precorreva la Guerra Civile. Nel film ripercorro i ‘suoi’ paesaggi, Chicago e Detroit, re-inquadrandoli oggi. Ne deriva una riflessione sull’uso della violenza nel contesto della schiavitù. Il tema della razza era imperativo, ormai, e l’ho affrontato attraverso il prisma della sua figura. Il conflitto razziale negli Stati Uniti non è nemmeno una recrudescenza, ma una costante. Non è il sistema che funziona male, è il sistema nel suo funzionamento”.

Interviene nell’incontro anche Bruno Torri, co-fondatore della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro con Lino Miccichè: “Lee Ann Schmitt è una cineasta che riesce a partire da una realtà oggettiva, per elaborarla e darle una forte impronta soggettiva, anche lirica. Mi chiedo se sia un atto consapevole, o derivi da un’inclinazione naturale”.

“Usare il mondo materiale per raccontare in modo metaforico quello umano, sociale e politico è centrale nella mia carriera” replica la regista. “Sono convinta che la migliore poetica venga dalla descrizione, perché ha il potere di far vedere qualcosa attraverso uno spazio. Impossibile sapere quanto di questo sia istintivo e quanto frutto del proprio ragionamento. Io invito sempre i miei studenti a osservare, leggere, seguire l’istinto e poi mettere in discussione tutto quanto, mettere in discussione se stessi. C’è sempre uno scambio dinamico tra realtà oggettiva e sguardo soggettivo”.