Tempi difficili, in tutti i sensi. In anni in cui si assiste, giorno dopo giorno, alla fuga apparentemente inarrestabile della grande industria dal nostro paese, alla teorizzazione della società post-industriale e a un più diffuso senso di scoramento collettivo dinanzi al futuro, tanto lavorativo quanto sociale, sembra rendersi inevitabile un impulso di ripensamento e di analisi nei confronti del recente passato, alla ricerca delle circostanze, se non delle cause, che hanno prodotto la realtà contemporanea. Seguendo questa traccia, Davide Ferrario porta Fuori Concorso a Venezia il suo La Zuppa del Demonio (definizione del grande Dino Buzzati a proposito degli altiforni), attraverso cui la ricerca si coniuga al ritratto storico e sociologico a un medesimo tempo, perseguendo l'ambizioso obiettivo di descrivere l'evoluzione del concetto di progresso dalle origini del Novecento sino ai giorni nostri. Se oggi, difatti, è spontaneo inorridire dinanzi alle immagini delle tante catastrofi ecologiche dovute a uno sfruttamento sconsiderato delle risorse e alle quali ormai, purtroppo, siamo abituati, l'idea che il progresso e l'industrializzazione avrebbero facilitato la vita dell'uomo è stata al centro della vita e del pensiero della società contemporanea per lungo tempo. “Con questo film - ci conferma Ferrario - mi proponevo di raccontare ciò che si è dimenticato, e cioè che dietro il mito dell'industrializzazione e della tecnologia ci fosse un sentimento positivo. La mia generazione e quelle ancora precedenti sono cresciute all'ombra di quest'utopia. A ripensarci oggi sembra quasi incredibile, ma all'epoca, almeno fino alla grande crisi petrolifera degli anni '70, tale utopia trascendeva le fazioni politiche, apparteneva tanto alla destra quanto alla sinistra”. Scelta forte e vincente de La Zuppa del Demonio è quella, prediletta dal regista, di lasciare che siano i documenti e le immagini a parlare, escludendo momenti canonici del documentario come interviste e commenti da parte di singoli individui.“Amo raccontare storie - ci dice il regista -. Sono contro il cinema a tesi e contro certa tipologia di documentari didascalici. Mi piace lavorare con il materiale d'archivio e, tramite il montaggio, offrire allo spettatore un nuovo senso e nuovi significati alle immagini. Questo è anche e soprattutto un film sull'Italia scomparsa prima che la mutazione antropologica, per dirla con Pasolini, omologasse le identità regionali italiane nel culto del consumismo. Attenzione, però: la mia non è un'opera di nostalgia, quanto il tentativo di rendere il senso di energia di un'epoca, a volte spericolata, a volte disastrosa, che oggi sembra non esserci più.” Nell'epoca del digitale e dei social network sempre più invasivi, infine, riflettere sulla metamorfosi dell'idea di progresso e sul carattere totalizzante della tecnica può apparire un atto quantomeno coraggioso. Vi è poi un deciso parallelismo metalinguistico tra serialità industriale e cinema. L'epoca del digitale segna un passo avanti o indietro nel cammino del linguaggio audiovisivo?“Si va avanti sempre - conclude Ferrario - il digitale non si arresta e offre grandi potenzialità. Eppure, ci sono delle controindicazioni: credo che l'interattività, questa vecchia illusione del passato, abbia tolto autorevolezza all'autore, se scusate il gioco di parole. In altri termini è cambiata la fruizione del prodotto audiovisivo; rispetto a un tempo, quando ci si sedeva in sala a guardare unicamente il film, oggi è sorta l'abitudine a modificare a proprio piacimento la visione - vedi l'home video, - e, allo stesso tempo, a integrarla con altre attività: tutto ciò si ripercuote sulle modalità stesse del narrare tramite immagini: bisogna sempre stare attenti per tenere alta la tensione dello spettatore, oggi forse troppo distratto. Questo, della moderna tecnologia, fa paura. A ogni modo, per riallacciarmi alla Zuppa del Demonio, credo il senso del film sia riassunto benissimo dalle parole esemplari di Giorgio Bocca con cui il lavoro si chiude: “tutte le cose che adesso ci appaiono orrende, allora ci sembravano bellissime”.