La svolta è datata 1958, quando Mario Monicelli lo reinventò attore comico. Lui, Vittorio Gassman (tolse una seconda “n” finale, ora recuperata dal figlio Alessandro), il tragico per eccellenza, teatro incarnato che al cinema arrivò per esigenze commerciali.

Prima di essere Peppe, il solito ignoto del classico fondativo della nostra commedia migliore, fu eroe occasionale in drammi d’appendice e cattivo poco serio (vedere alla voce Riso amaro: lui stesso lì si considerava poco convincente, a esser buono) e poi italiano d’esportazione per rappresentare stereotipo mediterraneo (i titoli: Sombrero, Rapsodia, Mambo).

Se non ci fosse stato Monicelli, insomma, che ne sarebbe stato del Gassman cinematografico? Domanda oziosa, perché da lì cambiò tutto. Il regista lo richiamò altre sette volte, in almeno due lo consegnò alla leggenda: La grande guerra, accanto ad Alberto Sordi (stima reciproca, rivalità ineluttabile), e L’armata Brancaleone, ovvero l’inattesa garanzia di un posto nell’immaginario.

Vittorio Gassman in Il sorpasso

E se non ci fosse stato Dino Risi, lo stesso, dovremmo chiederci che strada avrebbe preso questo teatrante prestato al grande schermo per esuberanza e gigionismo. Quindici (più un cameo) i film insieme, spesso indimenticabili: non tanto l’istrionico Mattatore che annuncia il fondamentale I mostri quanto l’epocale Sorpasso, certo, ma anche l’avventura cialtrona del sottostimato Gaucho, la quintessenza del (peggiore) carattere nazionale per In nome del popolo italiano, la struggente decadenza di Profumo di donna che gli valse il Premio a Cannes.

E, sì, molto deve – e gli deve – Ettore Scola, che prima ha scritto per lui e poi l’ha anche diretto (nove volte), con affetto reciproco e disponibilità a reinventarsi. Per l’autore, Gassman si plasma cinico arrampicatore nel monumentale C’eravamo tanto amati, comunista in crisi amorosa nello spartiacque La terrazza, patriarca fragile nel rapsodico La famiglia.

Ma Gassman è stato anche altro: curioso per bulimia creativa e gusto della recitazione, prolifico forse per eludere pigrizie e profonde malinconie, aperto a esperienze spesso bizzarre o assurde, riconosciuta icona dell’italianità – e della sua teatralità antica ed eterna – all’estero (l’apice, forse, con Robert Altman in Un matrimonio, in cui Gassman duetta e improvvisa con uno dei suoi discepoli, Gigi Proietti).

Nel centenario della nascita (nacque a Genova il 1° settembre 1922) ci sembra divertente riscoprire alcune sue cose meno in luce e più laterali, per testimoniare la ricchezza, la complessità e la fertilità di una carriera che ha pochi eguali nello spettacolo italiano.

 

Guerra e pace di King Vidor (1956)

Prima dell’ascesa con Monicelli si presta alle produzioni più disparate, drammoni in primis, compresa questa magniloquente impresa targata De Laurentiis oggi un po’ dimenticata (leggi: polpettone). Il typecasting dell'epoca lo elegge interprete ideale per il viscido Anatol’: il ballo galeotto con cui concupisce la povera Nataša (Audrey Hepburn) è una notevole allegoria sessuale.

Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli (1961)

In questa elegante ed eccentrica commedia, che convoca il realismo magico nel cuore della decadenza capitolina, c’è spazio anche per il nostro, ormai divo a cui basta una partecipazione straordinaria per restare nella memoria: è il Caparra, un fumantino pittore incompreso che tutti scambiano per l'odiato Caravaggio, capace di dipingere un grande affresco in una notte.

Il successo di Mauro Morassi (1963)

Non tutti sanno che Dino Risi ne fu per buona parte un regista occulto: un post-Sorpasso (si ricompone la coppia con Jean-Louis Trintignant) da riconsiderare meglio, parabola agra sul lato oscuro del boom, un po’ moralista ma sintonizzata sui cambiamenti del costume e sull’ebbrezza per il denaro facile. E che offre l'immagine di un sistema-cinema vivace e reattivo.

Vittorio Gassman in Il successo

Lo scatenato di Franco Indovina (1967)

Audace e spericolato, si ritrova protagonista di uno dei film più incredibili e moderni, diretto da un regista morto troppo presto: trip pop sul capitale, opera intellettuale e allucinogena pre-sessantottina, incrocia il lessico slapstick con la critica alla società dei consumi, seguendo il delirio di un personaggio (un attore, va da sé) che impazzisce per paranoia zoofila.

La pecora nera di Luciano Salce (1968)

Altra commedia squinternata in cui si fa guidare da uno dei suoi registi preferiti degli anni Sessanta: qui il funambolismo del mattatore si declina sul tema del doppio dando vita a due gemelli, l’uno politico irreprensibile e l’altro imbroglione corrotto. Più farsa che satira, cinica senza disturbare, tra i suoi tanti one man show del periodo. Roberto Andò se ne ricorderà per Viva la libertà.

L’alibi di Adolfo Celi, Vittorio Gassman e Luciano Lucignani (1969)

Un oggetto stranissimo, che somiglia a certe esperienze del cinema indipendente americano, autofiction all’altezza dello spettacolo (tre amici di vecchia data, compagni in Accademia: Celi e Gassman erano già star internazionali, Lucignani era teatrante eclettico) in cui le verità della confessione en plein air giocano con la scrittura, la messinscena, il divismo.

Anima persa di Dino Risi (1977)

Tra le collaborazioni con il sodale Risi è forse la più spiazzante, nonché tra le cose in assoluto più assurde del nostro cinema mainstream: un criptohorror in una Venezia spettrale e decaduta, variante di Jekyll e Hyde, una storia di fantasmi e nevrosi, in cui il divo incede spargendo follia (sua) e stupore (nostro). Il suo manifesto appare in Esterno notte di Marco Bellocchio, a mo' di parafrasi.

Vittorio Gassman in Anima persa (Webphoto)

Pelle di sbirro di Burt Reynolds (1983)

In un momento di crisi del nostro cinema, accetta proposte dall’estero: Altman (due volte), Clive Donner, Paul Mazursky, Alain Resnais (La vita è un romanzo, da incorniciare). Ma ci piace citare questo brutale neonoir in cui è gustoso villain che gioca con gli stereotipi. Negli anni Novanta lo chiama Barry Levinson: in Sleepers gli basta una comparsata da padrino per impartire lezioni di come si recita.

Mortacci di Sergio Citti (1989)

Nella grottesca corale dell’irregolare romano (leggere l'inconcepibile cast per capire), Gassman è un maledetto povero cristo che non si fa scrupoli a calpestare i defunti per provare a svoltare, un miserabile che crede di poter sopravvivere in un mondo sempre più brutto sporco e cattivo. Un freak supremo, anzi un altro mostro: ma pure i mostri non sono più quelli di una volta.

Tutti gli anni una volta l'anno di Gianfrancesco Lazotti (1994)

La vecchiaia sembra sorprenderlo all'improvviso e l'ultimo decennio offre all'anziano e tormentato gigante poche belle occasioni (Tolgo il disturbo, La cena). Lo ricordiamo in questa riunione di istrioni âgé: già monumentalizzato, appare alla fine dopo essere stato lungamente evocato… e compianto. Innesca il meccanismo del film in quanto assenza attiva, rivelandosi infine presenza imprevista e beffarda.