La temperatura della competizione berlinese, sin qui tiepida, si è un po' risollevata con il terzetto dei lungometraggi in competizione lunedì 14 febbraio. Per uno scherzo del destino (o no?) tutti e tre i film in gara nel giorno di San Valentino avevano a che vedere con tematiche pertinenti a relazioni amorose o sessuali.

Con Drii Winter (titolo inglese, A Piece of Sky) lo svizzero Michael Koch racconta la storia d'amore di una coppia delle montagne elvetiche, sullo sfondo di paesaggi maestosi e del lavoro agreste attraverso le stagioni. L'alterazione in chiave è la malattia di lui che progressivamente porta ad uno squilibrio mentale che l'amore della protagonista perdona contro il giudizio della comunità e nonostante azioni incontrollate. Un lavoro di messa in scena rigoroso ed esigente sostiene un racconto a tratti ostico, forse persino troppo dilatato, ma spesso di bellezza impressionante. Non si può non domandarsi come reagirà il Presidente di Giuria Shyamalan rispetto ad un'opera di questa natura. Ma sarebbe un peccato non ritrovarla nel palmarès di mercoledì.

Un potenziale candidato all'Orso d'oro è arrivato con il secondo film della giornata, Un año una noche di Isaki Lacuesta. Già premiato due volte a San Sebastián per i suoi lavori sul crinale tra documentario e finzione, Lacuesta si confronta qui con un soggetto rovente: l'attentato terroristico al Bataclan di Parigi nel 2015. Fortunatamente, Un año una noche opta per il racconto delle conseguenze dell'evento, puntando l'obiettivo su una coppia sopravvissuta all'attacco, nell'anno successivo a quella fatidica notte. Céline (Noémie Merlant) e Ramón (Nahuel Pérez Biscayart) si collocano agli opposti della reazione al trauma: fin dall'alba successiva, lei cerca di lasciarsi alle spalle quella notte, per riprendere la vita come nulla fosse; lui, al contrario, non riesce a scrollarsi di dosso la memoria di quanto visto e vissuto. Nella quotidianità della vita a due e nei rapporti con familiari e nel lavoro s'insinua progressivamente l'inevitabile frattura che le due posture ingenerano. Lacuesta racconta questa crisi con grande precisione e, grazie alla totale adesione degli splendidi interpreti, raggiunge vette emotive notevoli: la dolorosa scena del litigio della coppia Merlant-Biscayart innesca un diretto, impietoso confronto con quella artificiosa e gridata della coppia Binoche-Lindon nel film di Claire Denis. In un film che decentra e frammenta le presenze dei corpi allorché perdono la propria stabilità, il passaggio ambiguo di un ribaltamento di prospettiva nel pre-finale non è forse la scelta più felice che Lacuesta poteva adottare per arrivare alla chiusa. Ma Un año una noche resta un'opera di forte impatto, con cui la giuria non potrà non confrontarsi.

E c'è da chiedersi pure come si orizzonterà la giuria rispetto al nuovo film del prolifico Denis Côté Un été comme ça: un insolito idilio estivo attorno ad una casa sul lago, dove si ritrovano tre donne ossessionate dal sesso per un ritiro terapeutico coordinato da una terapeuta tedesca assistita da un operatore sociale, unico uomo del gruppo. Vi si ritrovano la consueta fluidità della messa in scena e naturalezza della recitazione che caratterizzano l'opera di Côté, in uno sviluppo della narrazione e delle scene che fa pensare ad una forte impronta di libertà e improvvisazione rispetto al lavoro con gli interpreti. Una leggerezza del costrutto che permette di sostenere una notevole durata (2h 17') nell'investigare i traumi delle protagoniste e il loro rapporto sovente masochista con l'altro sesso. Come di consueto con i film del 'provocatore' québécois, si ha l'impressione che una premessa intrigante non sia sfruttata appieno – e la questione dello sguardo maschile sul desiderio femminile, perdippiù ossessivo, in tempi di #metoo susciterà discussioni, ma la mano registica di Côté ha intuizioni brillanti e non lascia indifferenti.

Uscendo dai percorsi obbligati del Concorso, vale la pena di segnalare un paio di conferme. Da un lato, a Panorama, in Beautiful Beings si ritrova la mano felice dell'islandese Guðmundur Arnar Guðmundsson (Heartstone, Queer Lion di Venezia 2016) nel raccontare l'adolescenza, tra marginalità, bullismo, fluidità del desiderio e poteri paranormali. Ne esce una sorta di toccante Stand by Me 2.0 illuminato intrisa della luce senza tramonto dell'estate artica. Un cinema profondamente anafettivo è invece quello di Peter Strickland che con Flux Gourmet a Encounters, si conferma degno erede di una tradizione eccentrica del cinema britannico, sul solco di Derek Jarman e Peter Greenaway. Qui Strickland svicola dall'horror del precedente In Fabric (2018) per imbastire una commedia sui generis sul mondo dell'arte contemporanea e della gastronomia. Flux Gourmet segue infatti la cronaca della residenza per artisti culinari da parte di un collettivo guidato da Elle, raccontata da un diarista ufficiale greco afflitto da severi disturbi gastrointestinali. Una pozione cinematografica non adatta a tutti i palati, ma chi apprezza lo stile di Strickland ne sarà inebriato.