"Non è un film su di me, ma su tutti noi. Su come raccontiamo storie". Così Laurie Anderson a Venezia, dove ha presentato il suo inclassificabile Heart of a Dog, una sorta di diario avanguardista centrato sui lutti e gli amori della sua vita, sulle grandi domande dell'esistenza: che vuol dire vivere? Morire? Che senso ha una storia? E l'amore? L'arte? Il linguaggio? "Condivido molto gli insegnamenti di Wittgenstein sul linguaggio - continua la Anderson - e trovo assolutamente vera la sua frase per cui non si può parlare di ciò che non esiste. Il linguaggio crea il mondo. Perciò esistono le storie. Senza, non esisteremmo noi."

Tra le storie che la Anderson rievoca, molto sono vere, la maggior parte accadute a lei: "Ho scavato nel mio vissuto, cercando però di fare un film che parlasse a tutti. Avevo tantissimi filmini in super 8 della mia infanzia, che ho utilizzato. Avevo Lolabelle (il cane, ndr), avevo Lou. Ho cercato di trasmettere la sua personalità, la sua forza. Spero di esserci riuscita".

E ancora: "Questo film è costruito come una canzone. Ci sono molti archi, solo strumenti a corde e nessun "bip". Lo spettatore deve immergersi nell'inquadratura e condividere i vari punti di vista che gli offro. Spesso non vede i personaggi, deve immaginarli."

"So di non aver fatto un film facile - conclude -. Lo spettatore è invitato a interagire e a toccare argomenti che generalmente non si trovano in un film. Come il morire. Molti film mostrano la morte ma non che cosa sia il processo del morire. In America c'è una cultura che tende ad anestetizzare la morte. L'esempio è il veterinario che vuole addormentare Lolabelle per non farla soffrire. Per me invece è un processo che va vissuto. Non credo però di aver fatto un film funereo. Heart of a Dog è un film sull'amore. Tutto gira intorno all'amore. Persino il suicidio, che è un tentativo di conquistare la libertà".