Batigol, il Re Leone, El numero nueve: sono tanti i soprannomi di questo calciatore argentino che ha fatto storia. Considerato tra i più forti attaccanti del mondo, Gabriel Omar Batistuta si racconta, tra ricordi e aneddoti svelati, in questo documentario (intitolato non a caso El numero nueve) diretto da Pablo Benedetti e presentato oggi ad Alice nella città.

"Per tanto tempo mi sono voluto nascondere e proteggere, ma adesso ho deciso di aprirmi perché i ragazzi ci vedono sulle copertine, ma nessuno ci vede come siamo dietro le quinte", dice Gabriel Batistuta, che ha deciso di rivelarsi anche per "aiutare i giovani a scegliere cosa fare nella vita".

A sedici anni entrò in campo ("sapevo poco del calcio, a parte calciare") nelle giovanile del Newell's Old Boys, poi giocò sempre in Argentina per River Plate e Boca Juniors, ma il suo sogno era quello di andare in Italia. Nel Belpaese ci arriverà a seguito della vittoriosa Copa Amèrica del 1991.

Acquistato dal presidente Mario Cecchi Gori (lo pagò 12 miliardi di lire) vestì per nove anni la maglia viola della Fiorentina, con cui vinse una Coppa Italia e una Supercoppa italiana, poi passò alla Roma e conquistò lo scudetto nel 2001, infine si trasferì all'Inter.

"Mi sono sempre impegnato- racconta-. Mi sono dato un obiettivo e ho cercato di perseguirlo. Ho speso più di metà della mia carriera ad imparare. Quando durante l'allenamento provavo a fare delle cose, a prescindere che ci riuscissi o meno, tornavo a casa contento perché è l'intenzione che ti fa sentire vivo".

 

Il doc è un quadro intimista dell'indimenticabile Numero nueve. "Nel film tutto quello che ho detto veniva dal profondo del mio cuore. Penso che il significato della vita sia quello del cercare di migliorarsi in qualsiasi aspetto", spiega.  Per farlo il regista ha cercato di non fare mai sentire la presenza della macchina da presa: "Mi sono messo sempre al lato e sono stato neutrale proprio per far venire fuori la sua essenza. Lui è un professionista sia come calciatore che davanti alla telecamera".

Nel 2005 si ritira definitivamente dal calcio, dopo la rescissione del contratto con l'Al-Arabi. Per lui si aprirà un brutto periodo sia a livello piscologico che fisico per via delle cartilagini della caviglie compromesse. Insomma sono quasi vent'anni che la gente non lo vede più correre sul campo e non esulta più di fronte al mitico gesto della mitraglia con il quale accompagnava ogni suo goal. Eppure ancora oggi nessuno lo ha dimenticato. Come mai?

"Sono fortunato perché ho vinto pochi trofei, ma la gente dopo vent'anni ancora mi ricorda. Le mode cambiano, in televisione vedi altre persone, ma evidentemente qualcosa ho lasciato e ho trasmesso delle emozioni. Ho cercato di mandare il messaggio del sacrificio, che nella vita bisogna insistere e porsi degli obiettivi. Non mi hanno mai visto come Messi, Cristiano Ronaldo o Maradona. La gente mi ha sempre visto simile a loro: sono uno normale", risponde. 

Da poco anche Totti ha concluso la sua carriera. Nel suo saluto ai tifosi ha detto la toccante frase: "Aiutatemi perché ho paura". Che consiglio gli darebbe? "Non mi sento di poter dare alcun consiglio. Io paradossalmente ho avuto la fortuna perché le mie caviglie, facendomi male, mi hanno aiutato a smettere. Personalmente ho cercato altre vie. C'è una vita al di fuori del calcio, che è altrettanto bella: viaggi, figli e cose semplici".