“Sarò naive, ma credo di poter cambiare qualcosa, almeno posso provarci: di fronte all'assurdità della guerra, devi decidere di reagire”. Dopo Caramel, la libanese Nadine Labaki segna ancora il tempo al femminile: E ora dove andiamo? (Et maintenant on va où?), una commedia musicale per riflettere la divisione “religiosa” che attanaglia il Libano e l'intero Medio Oriente, dal 20 gennaio in sala con 100 copie targate Eagle. 
Si parte da un corteo funebre, coreografato con solenne ironia da un gruppo di donne, tra cui Amale (la stessa Labaki), Takla, Yvonne, Afaf e Saydeh. Il pericolo è generico, anzi, di genere: nel villaggio isolato dal mondo arriva la tv, con le news sugli scontri tra cristiani e musulmani a Beirut, e gli uomini non ci passano sopra. Allah versus la Madonna, una moschea invasa da capre e pollame e la ritorsione con la statua della Vergine in frantumi. Ma le donne hanno cuore e ragione per la pace: fanno di tutto perché il sangue non scorra, finendo per assoldare delle danzatrici ucraine e drogando pure mariti e figli ad hoc.
“Sin da piccola, ho una relazione speciale con la tv: c'era la guerra, stavamo chiusi in casa, ed era l'unico modo di relazionarsi col mondo e per sognare un altro mondo. E sempre da piccola ho deciso di diventare filmaker per creare una realtà diversa dalla mia e poter sognare: musica, danza, cinema mi permettono di farlo”. Non a caso, grazie alla colonna sonora del marito e collaboratore della Labaki Khaled Mouzanar, E ora dove andiamo? si avvicina al musical, dispensando risate e humour a piene mani: “Grazie all'ironia e al riso - dice la regista - possiamo prendere atto dei nostri difetti e iniziare il processo di guarigione”.
Perché quello inquadrato senza denominazione di spazio e  tempo “non è solo il conflitto tra musulmani e cristiani, bensì un conflitto più universale tra esseri umani: attraverso al musica, il mio è un approccio non realistico, fiabesco”. E con la danza  farla da padrone, sin dalla prima, fondamentale sequenza: “Penso alla tante donne che hanno perso un figlio in guerra, e che riescono a  sopravvivere: la loro sofferenza diventa danza rituale, io le ammiro, e questo vuole essere un omaggio”, dice la Labaki.
E, dopo lo straordinario successo in patria (“E' diventato il film di un nazione, il titolo campeggia nello status di tanti su Facebook, perché tutti noi ne abbiamo abbastanza, vogliamo la pace”), E ora dove andiamo? potrebbe finire nella cinquina del miglior film straniero agli Oscar, complice il premio del pubblico al festival di Toronto: “Emozionante, quasi incredibile, perché il Libano non ha un'industria cinematografica”. Il segreto? Innanzitutto, una domanda - quella del titolo - inevasa: “Non ho una risposta, non voglio dire che la pace arriverà dalle donne, ma con questo film mi prendo le mie responsabilità di essere umano, donna e madre. Il problema è globale: la gente ha paura dell'altro, basta prendere la metro a Parigi o Londra per accorgersene”.
Tra le sirene di Hollywood: “perché no, se mi concedono libertà di pensare e fare” e l'eco delle Primavere Arabe: “A mio modo, questo film ne è partecipe, ma sono anche scettica, basti vedere gli scontri tra musulmani e cristiani in Egitto”, la Labaki non nega qualche affinità poetica con l'amico regista palestinese Elia Suleiman (Intervento divino, Il tempo che ci rimane) nel segno del realismo magico, del potere dell'immaginazione: “E' una reazione naturale per tanti registi di quest'area: la situazione è così assurda che ci vuole humour per sopportarla”.