Pare che la nascita della parola star non venga solo dal firmamento. Forse è storia, forse leggenda, ma all’inizio era un semplice pezzo di carta. Nei teatri dell’Ottocento, affollatissimi di interpreti, un disegno a forma di stella veniva affisso sulla porta dei camerini, per segnalare dove stavano i protagonisti. Così non ci si poteva sbagliare, erano loro a reggere lo show, non i minori che spesso facevano due o tre ruoli. Oggi, dentro alle stelle dell’Hollywood Boulevard, possiamo leggere i nomi dei divi, lungo il marciapiede che segna la memoria di chi, nel cinema, ha lasciato un segno luccicante.

Secondo il mito, quella che chiamiamo Hall Of Fame è arrivata come risposta all’invenzione delle impronte degli attori, sul cemento gettato di fresco davanti al Chinese Theatre. Le stelle nascono ma non muoiono, quando sono davvero tali. Brilleranno per sempre in uno spazio eterno come il cielo, nei ricordi di chi ha sognato attraverso il loro fascino. Però, nel mondo dello spettacolo, la domanda ce la poniamo sempre: come nasce una stella?

Senza il punto interrogativo, È nata una stella era il titolo di un film del 1937, diretto da William A. Wellman, con la stessa trama che cinque anni prima era stata raccontata in A che prezzo Hollywood? di George Cukor. Nei decenni a seguire, sono stati girati due remake, a dimostrazione che la nostra curiosità di spettatori non si appagava, ma anzi ritornava più forte col passare delle generazioni. Una quarta versione uscirà nelle sale italiane dal 5 ottobre distribuita da Warner Bros, con Bradley Cooper per la prima volta dietro la macchina da presa.

Il talento da scoprire sarà quello di una giovane cantante country, che ha il volto della controversa Stefani Angelina Germanotta, in arte Lady Gaga, ai vertici delle classifiche con Poker Face e Bad Romance. La conosciamo per la sua eccentricità nei costumi, per il suo attivismo su più fronti e per essersi ispirata a Radio Gaga dei Queen. Ma lei è solo l’ultimo astro nascente di questo grande classico.

 

La maggior parte di noi ha ancora negli occhi il film del 1976, dove scintillava Barbra Streisand. La platea più cinefila venera ancora la novità e il pathos che animava l’adattamento di Wellman, con Janet Gaynor. Ma forse la storia del cinema fa irradiare la vicenda dal 1954, quando la Warner scelse come protagonista Judy Garland, affidandola alle mani esperte di George Cukor. Per tanti, Judy Garland è stata solo la madre di Liza Minnelli e la moglie di Vincente Minnelli. È vero, ma lei splendeva di luce propria. La vestirono da bambina ne Il mago di Oz, con le trecce e quell’espressione innocente. Come donna, è sempre stata fragile, tormentata, e l’aver perso l’Oscar, nel 1954, in favore della giovane Grace Kelly potrebbe averla portata verso l’autodistruzione. Groucho Marx le inviò una lettera: “La più grande rapina dopo Brink’s”, in poche parole era stata derubata.

Judy Garland la sua Viky Lester l’ha vissuta prima ancora di interpretarla. Da quattro anni non compariva più sul grande schermo, lei che a dodici era già una celebrità, e dopo i sedici una diva, ballerina, cantante. Un’ascesa troppo rapida, difficile da reggere anche per spiriti indomabili. Due divorzi alle spalle, problemi di droga e psicofarmaci, per riuscire a sostenere un lavoro che le era diventato difficile, e molti tentavi di suicidio a scandire la sua precoce discesa.

Quando la Warner le offre la parte, lei è già l’ombra di se stessa, e la sua vita si riflette nel film come un’immagine speculare. Garland, nella vita, è più vicina alle ansie del suo pigmalione Norman Maine che a quelle della ragazza Vicky Lester, a cui lui deve insegna tutto fino a restare vittima del suo ruolo. Il film, ancora oggi bellissimo, ebbe una lavorazione travagliata e non ottenne il successo previsto. Venne mutilato prima e dopo il montaggio. In seguito, Judy Garland sarebbe risorta solo in una piccola apparizione in Vincitori e vinti di Stanley Kramer nel 1961. Sul suo viso, in un vibrante ritratto di donna sofferente, non c’era più ombra di glamour: la sua stella aveva ormai smesso di splendere.

 

Invece Janet Gaynor arriva alla corte di Wellman da vera star. Il suo volto angelico avrebbe addirittura ispirato Walt Disney per disegnare Biancaneve. La sua fortuna l’aveva costruita all’epoca del muto, lavorando con Murnau in Aurora e con Frank Borzage in Settimo cielo e L’angelo della strada. In settimana girava con uno e nel week end con l’altro: tutti la volevamo, tutti la cercavano.

Nel 1929 è stata la prima attrice a vincere un Oscar. Lei non canta e non balla, perché Wellman non gira un film musicale, ma una storia drammatica. Un melodramma classico, commovente, da cui Cukor avrebbe attinto a piene mani per il suo capolavoro. La sequenza dello schiaffo alla notte degli Oscar e il finale, in cui la protagonista si presenta col nome del marito suicida, sono brani da antologia.

 

È nata una stella del 1976 è cucito sulla pelle della sua diva: Barbra Streisand, icona fin dal primo fotogramma. Non ha bisogno di nessun pigmalione, lei. Kris Kristofferson è solo un gregario, e lei produce addirittura il film. Con i capelli ricci e gli occhi di ghiaccio, strega le folle sotto il palco anche nella finzione, e si regala da sola la celebrità. Non esiste un premio che Streisand non abbia vinto, sia davanti al microfono che davanti alla cinepresa. Nessuno ha mai venduto più dischi in tutto il pianeta, forse solo Madonna. Una vincente nata, una che non è mai scesa dalla cresta dell’onda. Il cinema avrà sempre bisogno di star, anche sul viale del tramonto: “Non si lasciano mai le grandi stelle, è per questo che sono stelle”. Lo diceva Norma Desmond in Sunset Boulevard prima che il suo protetto provasse ad abbandonarla. Nessuno l’ha mai dimenticata.