Avviso ai naviganti: c'è un festival che funziona. E che stacca più biglietti e accrediti dell'anno precedente. Il Torino Film Festival festeggia il 30° compleanno nel migliore dei modi: rispetto alla passata edizione nei primi tre giorni + 12,60 % di incassi e + 10% di accrediti. Controtendenza, alla faccia - qualcuno c'è… - di chi vuole male a Torino. Ma parliamo di film. Una piacevole sorpresa, innanzitutto, a Rapporto Confidenziale.
The Land of Hope di Sion Sono non è per niente male, anzi, e non l'avremmo detto: si tratta, in effetti, di un Himizu 2, ovvero una nuova indagine antropica ed emotiva ancor più contaminata dalla tragedia nucleare di Fukushima. Là due teenager e una famiglia disfunzionale, qua più o meno lo stesso, e scatta la conferma: il regista culto di Love Exposure ha - temporaneamente? - messo nel cassetto le proprie idiosincrasie autoriali per raccontare il Giappone qui e ora. Più sociale che psicologico, almeno nel punto di partenza, The Land of Hope è insieme un mélo formato famiglia e un film bellico: stavolta, il nemico non sono più gli americani, ma qualcosa di invisibile, scrutabile solo con i contatori geiger, eppure si fa sempre harakiri, non nella giungla, ma nell'orto di casa. Qualcuno l'ha definito un Via col vento radioattivo: non sbaglia.
Prosegue anche il Concorso, con tre film: il ceco-slovacco Made in Ash di Iveta Grofova; lo svedese Call Girl di Mikael Marcimain e lo spagnolo Terrados di Demian Sabini.
Male il primo, che racconta la storia della povera Dorota, che vive in un paesino slovacco con famiglia e il fidanzato. Ma non c'è lavoro, e deve cercare fortuna in Repubblica Ceca: fabbrica tessile, ma non dura,  e il peggio deve venire. Intorno a lei e tante altre girano mosconi di mezza età, con qualche soldo e qualche libidine: i sogni si spezzano presto, ma ancor prima l'esordio fiction della documentarista Iveta Grofova, che dimostra buona mano nel copia&incolla dalla realtà, ma gravi carenze sotto il profilo dell'empatia e dell'emozione. Il colpo di scena, soprattutto registico, non arriva mai, e la povertà del soggetto diviene quella del racconto. Si può, si deve osare di più.
La prostituzione cala una mano ancor più pesante in Call Girl, ovvero, "Ragazza squillo", che ci riporta a uno scandalo realmente accaduto nella Stoccolma del '76: due 14enni ospiti di un centro per minori vengono reclutate da una volitiva maitresse (Pernilla August, applausi) in un giro di prostituzione d'alto bordo, con politici, ministri, diplomatici e pezzi grossi degli affari per clienti fissi. “Thriller sociale e personale sulla Svezia in un'epoca di liberazione sessuale e di confusione”, lo definisce il regista Mikael Marcimain, classe '70, Prix Italia nel 2008 per la mini serie-tv How Soon is Now (splendido titolo). Debuttando alla finzione su grande schermo, guarda alla dilatazione stilistico-temporale di Carlos di Olivier Assayas e al mood minimale e vintage de La talpa diretto dal connazionale Tomas Alfredson: exemplum irraggiungibili, ma Call Girl ha tempi, modi ed estetica della fiction tv ideale. Per noi italiani, se non bastassero i serial americani, l'ennesima lezione. Non solo, l'infido intrecciarsi di liberazione dei costumi e lassismo morale è il valore aggiunto, mentre il caso Ruby, con annessi e connessi, l'utile grimaldello mediatico. Presentato in anteprima mondiale a Toronto, uscito 15 giorni fa in Svezia e Finlandia,  l'abbiamo visto sotto la Mole: sempre sicuri che lo ius primae noctis serva?
Mentre stanno (domani) per passare l'atteso Vangelo secondo Giovanni Columbu, Su Re, benedetto da Nanni Moretti e secondo italiano in Concorso, e il gregge di Renato Zucchelli, in transumanza da piazza Duomo agli schermi torinesi ne L'ultimo pastore di Marco Bonfanti, dalla Spagna arriva la crisi: Terrados, ovvero le terrazze condominiali su cui un avvocato e gruppo di amici-colleghi tutti disoccupati è solito passare le giornate. Dirige e interpreta con umore autobiografico Demian Sabini, e questa Spagna infelix riguadagnata da una prospettiva quasi aerea ma con i piedi drammaticamente per terra ha molto da dirci: si ride, ma si ride amaro, mentre il contatto con la realtà sfuma. Certo, la crisi intacca il film stesso nel finale con linee di sceneggiatura sballate e il retrogusto di un pasto farraginoso, ma Terrados è un memento disperatamente sincero, con pregevoli battute.
Su tutte, una barzelletta: due amici si incontrano in un bar, uno chiede più privacy, si mettono in un angolo, e il primo spara: “Mi servono 5mila euro”. Risposta: “Tranquillo, non lo dico a nessuno”. E' la crisi, bellezza.