“Ogni prigione ha un suo odore: rispetto a quelle russe marce e sovraffollate, questo è un ospedale, anzi, un ginnasio”. Parola di uno che il carcere lo conosce bene, il regista Vitalij Kanevskij, Caméra d'Or a Cannes '90 con lo straziante, semi-autobiografico Sta' fermo, muori, resuscita e protagonista di una retrospettiva al 28° Festival di Torino. Incastrato da un'accusa di stupro con lo zampino del KGB, venne recluso per 8 anni in una delle tante Colonie di rieducazione attraverso il lavoro dell'Unione Sovietica: “Non ero un detenuto politico, semplicemente non volevo abbassare la testa, e sono finito dentro da innocente, insieme a metà del Paese”.
Ma a volte il cinema può oltrepassare le sbarre: succede con lui, che ha portato ai 28 detenuti (dai 15 ai 20 anni, 3 femmine) del carcere minorile “Ferrante Aporti” la sua Vita indipendente, intesa come film e non solo. “Il mondo è crudele, ogni scelta fatale”, dice ai ragazzi, ma Hollywood è lontana e non c'è alcuna Fuga per la vittoria: “Avrei potuto scappare almeno 10 volte, ma Dio mi ha aiutato a non farlo: sarei diventato un delinquente, non il regista che volevo”. “Quello che è ciascuno di noi, rispetto alla propria vita”, sostiene Kanevskij, invitando a “uccidere i maestri” e accusando la Russia odierna: “Col capitalismo, nessuna azienda vuole più ex galeotti, e per le donne c'è addirittura la strada: stare dentro può essere meglio che fuori”.
Dall'URSS che fu all'Iran oggi, la caccia non finisce: già a Berlino, The Hunter di Rafi Pitts è una sorta di Fuggitivo in farsi, soprattutto un ottimo film, “nato dalla rabbia contro il sistema e dall'amore per l'umano”. Senza didascalismi né agenda politica pret-à-porter, il finale è aperto e tanta l'ambiguità, perché “il 70% dell'Iran è sotto i 30 anni e io, Panahi, Ghobadi e molto altri siamo uno tsunami: la nostra sarà pure la generazione no future, ma l'avvenire è nostro”. E differente da quello di Kiarostami: “E' saggio, poetico e lo rispetto, ma appartiene a un'altra generazione. E un altro mondo”.