La mamma gli leggeva le favole della buonanotte e, a volte, gli faceva il riassunto dell’ultimo libro letto. Uno di questi era Caging skies di Christine Leunens, ma solo da adulto Taika Waititi si è reso conto che il genitore mescolava un po’ troppo le carte. Sembrava perfetto però per un film: un bambino di dieci anni è totalmente indottrinato dal nazismo prima della Seconda Guerra Mondiale da avere come amico immaginario proprio Adolf Hitler. Nasce così nel 2011 la sceneggiatura di JoJo Rabbit, che ha vinto il premio del pubblico al Festival di Toronto e che arriva il 23 gennaio nelle sale italiane. All’epoca nessun produttore gli ha dato retta, per ragioni evidenti. Poi è arrivata la regia di Thor: Ragnarok due anni fa e ogni porta di Hollywood si è spalancata, persino per un progetto così rischioso sulla carta. Di episodi tragicomici sul set di Praga ne sono successi a bizzeffe, soprattutto perché il regista interpreta anche il gerarca tedesco: “Un giorno stavamo girando nei pressi di un fiume fuori Praga – ha ricordato Waititi in Canada – ed io ero in costume. La troupe e il cast era da un lato e io sulla riva opposta. Ho iniziato a urlare gli ordini perché nessuno mi sentiva da quella distanza, mi agitavo avanti indietro, con le lenti a contatto che non mi davano tregua e quei baffetti che farebbero sembrare cattivo chiunque. Immaginate la scena. Era questa la nostra normalità”.

Perché proprio Hitler?

Era considerato un eroe e infatti JoJo, il protagonista, vede come un mostro la bambina ebrea che la madre (Scarlett Johannson, ndr.) nasconde in soffitta. Non credo esista modo migliore per ottenere un ribaltamento di prospettiva.

Cosa l’ha spinto a farlo?

Da genitore, ho capito ancora di più l’importanza di guidare i figli nella giusta direzione. Ci guardano come se fossimo esseri perfette ma durante i conflitti ci comportiamo da veri idioti. Guardare la guerra con gli occhi di un bambino di dieci anni, che sia ebreo o tedesco non importa, non mi pare sia mai successo al cinema.

Oggi sembra particolarmente attuale come saggio.

In maniera involontaria: sono felice che ci siano stati ritardi nel realizzarlo perché oggi questo film ha significati molto più profondi di quanto non avesse allora e mostra l’assoluta stupidità delle guerre. La storia però si ripete e i giovani non se ne accorgono neanche, in molti negli Stati Uniti non sanno neppure cosa sia un campo di concentramento.

Lei a che età l’ha scoperto?

Subito: il nonno paterno ha combattuto i nazisti, la famiglia materna – ebrei di origine russa – è scappata in Nuova Zelanda per evitare la persecuzione. Io sono sempre stato ossessionato dalla Seconda Guerra Mondiale, fin da piccolo mi hanno mostrato quel conflitto in bianco e nero, distinguendo nettamente bene e male.

E ora lo maneggia con humor nero.

Non saprei parlarne in altro modo, ma comunque bisogna arricchire la storia di elementi magici o fantasy e persino di amici immaginari per attirare l’attenzione e costringere le nuove generazioni a ricordare.

Quali caratteristiche ha mutuato dalle sue radici?

Lo spirito di sopravvivenza, la resilienza, la capacità di trovare la luce anche negli angoli bui e il desiderio di scoprire l’umanità mescolando commedia e dramma, proprio come succede nella vita.

In molti hanno storto il naso davanti alla sinossi del film.

Chi si sente offeso non deve guardare il film, per carità, capisco e rispetto i gusti e le ideologie di tutti. Questo film non è un omaggio a Hitler, che non merita certo un simile trattamento: la sua figura è l’incarnazione di un bambino di dieci anni nel corpo di un uomo adulto, che è poi come mi sento di essere io stesso.