Il Festival cinematografico di Fondazione Ente dello Spettacolo a Castiglione del Lago ha avuto l’onore e il piacere di ospitare Vinicio Marchioni, insignito del Premio Castiglione Cinema. Con l’occasione, il critico Federico Pontiggia ha avuto modo di intervistare lui e Maurizio Crippa, vicedirettore de Il Foglio, in relazione al rapporto del cinema con il racconto di cronaca.

In particolare, l’incontro verteva sul film presentato da Marchioni stesso, 20 Sigarette, sui tragici eventi di Nassirya. Quali sono state le difficoltà per l’attore non solo di interpretare un reale sopravvissuto a quell’evento, ma di farlo con la direzione di quella stessa persona, Aureliano Amadei, regista del film?

“Aureliano è stato intelligente” risponde Marchioni, “Dopo un mese di documentazione approfondita, durante il quale rivissuto con lui questa tragedia, prima delle riprese mi preannuncia che sul set non mi avrebbe detto più niente”.

E continua: “Questo grado di libertà ha fatto sì che potessi concentrarmi su un essere umano di 28 anni, che fino a quel giorno era un idealista, in un certo senso ancora adolescente, e poi si è trasformato di colpo in un adulto”.

Cos’è, allora, che il cinema dà a questi racconti, che invece i tradizionali media di cronaca non danno? Alla domanda di Pontiggia, risponde Crippa: “Con il sollevarsi del polverone del deserto, dell’esplosione e delle parole, cinema e giornali sono divorati dalle quattro immagini della TV. Ma dopo, posata quella polvere, il cinema ha il potere di far riemergere una storia, di rendercene protagonisti, che è un grande dono”. E prosegue: “Basti pensare a Spielberg, che usa il cinema per raccontare la Storia alle generazioni che non coltivano la memoria, ad esempio nel Salvate il soldato Ryan”.

Il cinema italiano, d’altronde, è piuttosto carente nel genere di guerra. Ma perché?

“Dovremmo chiedere ai produttori” replica Marchioni, “ma innanzitutto immagino perché i costi sono molto alti. E c’è un secondo problema, più inquietante: noi italiani non siamo bravi a considerarci degli eroi. Avremmo tantissimi esempi, ma abbiamo paura di assumerci questa responsabilità”.

Prosegue, poi: “Difficilmente riusciamo a unirci, anche nelle tragedie. Per me, il cinema dovrebbe avere un impegno in questo frangente. Finora abbiamo raccontato ‘l’arte di arrangiarsi’. I nostri eroi sono quelli di C’eravamo tanto amati, Un americano a Roma, La Grande Guerra, che hanno la missione di sopravvivere. Mai di salvare il mondo, come gli americani”.

Argomenta anche il critico Federico Pontiggia: “Questa è un’incapacità, o irresponsabilità, della nostra cultura. In  Un eroe borghese, ‘borghese’ è diminutivo. Altro esempio è Nessuna qualità agli eroi, titolo che solo in Italia potrebbe esistere. Tra l’altro, da produttori non premiamo film eroici, ma lo facciamo da spettatori. Quando Rambo viene trasmesso fa sempre il picco di ascolti, ed è un eroe molto eterodosso. Cerchiamo di supplire al nostro bisogno di eroi con prodotti terzi”.

Approfondisce Marchioni sul tema: “Oggi la sfida è riportare il pubblico in sala. Di vite normali abbiamo già le nostre, al cinema vogliamo storie di vite straordinarie. Si dice che il cinema sia lo specchio della realtà ma Shakespeare nel ‘500 ha scritto cose dell’essere umano che l’essere umano non sapeva ancora di sé” e conclude, “Il cinema può e deve fare lo stesso, e se lo fa in maniera errata è come una cattiva educazione, fa dei danni. Si scrive perché il pubblico non pensi, non si faccia delle domande, non sviluppi una visione critica. È vero che c’è bisogno di intrattenimento, ma facciamo riflettere su alcune cose, oltre che intrattenere”.