L'opera seconda, si sa, è più complicata della precedente. Nel caso di Alberto Barbera, al secondo anno del secondo mandato (non consecutivo) da direttore della Mostra di Venezia (28 agosto - 7 settembre), non sembra essere così: “Quest'anno siamo stati più fortunati, per il cinema mondiale è stato un periodo molto fertile – abbiamo visto qualcosa come 2000 lungometraggi e oltre 1000 corti – e il fatto di poter aprire il Festival con un film come Gravity lo dimostra”.
Con i dovuti distinguo, la sensazione è quella che sia un colpo paragonabile ad Eyes Wide Shut di Kubrick.
La fortuna gioca molto, è una questione di coincidenze tra il periodo in cui è prevista la Mostra e la disponibilità di un film. Lo scorso anno, ad esempio, per una serie di motivi non riuscimmo a portare Argo di Ben Affleck. Al contrario, neanche il più incallito dei sognatori poteva immaginare che nel '99 avrei inaugurato la mia prima edizione da direttore con Eyes Wide Shut… Tornando al presente, e a Gravity, siamo di fronte ad un film di genere, diretto però da un regista come Cuarón che non si assoggetta alle convenzioni e che per questo ha realizzato un'opera molto complessa, visivamente stupefacente e che sì, può forse considerarsi spartiacque come all'epoca lo furono le invenzioni di Kubrick.
E il concorso? Rispetto alla scorsa edizione ci sono due titoli in più.
Rispetto ai 18 film dell'anno passato, abbiamo dovuto fare alcune eccezioni: la prima è stata quella di mettere in gara il film di Miyazaki, The Wind Rises, pur non essendo una prima mondiale. Ma è un lavoro straordinario, anche per come si inscrive nell'opera del regista nipponico, che ha sempre avuto un legame particolare con Venezia. Tutte le altre sono premiere mondiali, con scelte che sorprenderanno. Penso ai documentari di Gianfranco Rosi (Sacro GRA) e Errol Morris (The Unknown Known): pur creando un precedente - credo sia la prima volta che la competizione ospita due documentari - abbiamo assunto questo rischio per tanti motivi. In primo luogo per la qualità di entrambi, in seconda battuta perché crediamo siano due opere che trascendono i confini tradizionali del cinema reale, dimostrando come oggigiorno certe “barriere” non abbiano più alcun senso: una scelta che prende atto di quanto non esistano più i “generi” come si intendevano una volta.
Qual è, se c'è, il fil rouge che caratterizza le opere in gara?
È una selezione che fornisce una macrofotografia del cinema mondiale a 360°, con riferimenti eterogenei. Siamo rimasti molto colpiti dalla ricorrenza di certi elementi, come la violenza non solo sociale, ma familiare, domestica: un esempio per tutti, Miss Violence del greco Alexandros Avranas. L'altro aspetto che emerge con forza è questa indicazione metaforica rispetto alla crisi mondiale, come se pesasse così tanto da non permettere ai cineasti di realizzare film capaci di dare indicazioni per il futuro o fornire sguardi di speranza, di ottimismo. Una selezione molto radicata nel presente, che regala un'immagine complessiva dei tempi bui che stiamo vivendo.
Qualche titolo scelto invece più per il richiamo del cast?
Nessuno. Ci sono film che pur garantendo grosse presenze non ci hanno convinti e quindi non li abbiamo voluti o forzato per averli. Insieme al gruppo di selezionatori – con cui anche quest'anno si è creata una collaborazione efficace ed armoniosa – abbiamo operato solamente scelte funzionali ad un allargamento di prospettiva sul cinema contemporaneo.
Per quanto riguarda il discorso sul glamour, poi, ho letto di tutto nel corso dell'anno sui vari Festival. Ci sono critiche spesso opposte nella loro radicalità: da una parte c'è chi accusa le kermesse di essere troppo asservite alle logiche del mercato e quindi poco attente alla sperimentazione, dall'altra invece c'è chi, per lo stesso Festival, muove la critica opposta…
Ci sono state rinunce “dolorose”?
Tutto sommato no, non sono molti i film che mancano all'appello. Le assenze sono determinate da ragioni diverse: perché il film non è ancora pronto oppure perché le strategie di promozione definite dalle società di produzione non coincidono con le strategie o i desiderata del Festival. Spesso può anche accadere che un attore o attrice importanti abbiano altri impegni concomitanti al periodo della Mostra, quindi le produzioni si troverebbero impossibilitate a garantire la promozione che vorrebbero al proprio film.
Nell'edizione passata è partito l'esperimento di Biennale College. Come procede?
Il tempo in questa scommessa si è rivelato decisivo: un anno è veramente molto poco. Ma siamo molto soddisfatti di questa edizione numero 0, perché tentata per la prima volta nel mondo. Alla Mostra presenteremo i primi tre film e annunceremo i nuovi 12 progetti, facendo tesoro di questa prima esperienza per migliorarla ancora.
E l'esperienza da direttore del Festival?
Confesso che è stato un anno molto difficile, da tanti punti di vista. La crisi rende tutto molto più complicato e questo processo di ridefinizione del cinema e dei suoi paradigmi, a tutti i livelli, è qualcosa che costringe gli organizzatori di Festival ad un lavoro di adeguamento. Un riassetto complessivo del proprio ruolo e della dimensione del proprio lavoro.