L'11 settembre 2001 a Cannes. Dopo i primi 20 minuti di World Trade Center di Oliver Stone, abbiamo visto in anteprima United 93 di Paul Greengrass, che domani porta sulla Croisette la tragedia che - dice il regista - "ha cambiato per sempre le nostre vite". Reduce dal terrorismo nell'Irlanda del Nord mirabilmente inquadrato in Bloody Sunday, Greengrass si concentra ora su un evento "minore" dell'11/9, quello del volo 93 della United dirottato dai terroristi e schiantatosi a Shanksville, Pennsylvania, per l'ammutinamento dei passeggeri. "Se metti a fuoco un singolo evento - dice il regista - puoi ricavarvi qualcosa di prezioso, che trascende l'evento stesso: il DNA dei nostri tempi". Ed è proprio questo che lo schermo rivela, nel segno di una quotidianità che verrà ineluttabilmente sconvolta. Il film si apre con le preghiere e gli atti preparatori dei prossimi shahid: in una camera d'albergo si prostrano, invocano Allah, si radono il dorso e il pube, poi escono. La meta è l'aeroporto di Newark, New Jersey, dove i quattro hanno una prenotazione sul volo 93 della United Airlines diretto a San Francisco. In montaggio alternato il percorso dei quattro è inframmezzato dai volti degli altri passeggeri e dell'equipaggio: nella hall, al banco accettazione, al check-in, infine sull'aereo. La narrazione parallela è costante nel prosieguo del film: Greengrass alterna la camera su crew e passeggeri del volo 93, i controllori del traffico aereo a Boston e New York e il personale militare del Northeast Air Defense Sector (NEADS). Leitmotiv è l'incredulità, il caos, lo sbigottimento: i controllori sono fuori controllo, i militari hanno solo quattro caccia - di cui due non armati - per difendere l'intero fronte orientale. Perchè è uno il problema fondamentale: l'inverosimiglianza. Come credere a un dirottamento, anzi a una serie di dirottamenti, se è un evento che non si verifica da oltre dieci anni. Ma ci si deve ricredere: improvvisa irrompe la realtà del terrorismo e si infrange sulla torre nord del World Trade Center, ma ancora non basta. E' solo quando il secondo jumbo penetra il grattacielo a sud che il film raggiunge il climax emotivo: gli addetti al traffico aereo fissano le riprese della CNN a bocca aperta, rigidi, incapaci anche di imprecare. Lo schermo diviene di ghiaccio, la nostra visione fortemente ansiogena. Greengrass ci invita allora al de profundis per i passeggeri dello United 93, ma lo fa senza ricorrere a sterili e banali meccanismi di immedesimazione e identificazione, ovvero ci lascia liberi - ed è peggio - di assistere ai 91 minuti di agonia del volo riprodotti con la stessa durata dal film. Indecisione e fremente attesa per i terroristi, conversazioni e scambi di gentilezze tra i passeggeri e l'equipaggio, reciproche confessioni tra i piloti, fino a quando i quattro aspiranti suicidi non partono alla conquista della cabina di pilotaggio: un passeggero è pugnalato mortalmente, gli altri tenuti a bada con la minaccia di una finta-bomba, una hostess sequestrata, pilota e co-pilota trucidati. E' l'inizio della fine, contrappuntato senza enfasi alcuna dalle musiche di John Powell. Che rimane? Il tempo per chiamare i congiunti e gli amici, sapere della sorte degli altri tre aerei dirottati, decidere di reagire. Ma è difficile, se non inutile, fare la cronaca di quei minuti che Greengrass ci riconsegna con sguardo limpido e atroce, senza sovrastrutture né discorsi a tesi. Impiegando differenti camere, spesso tenute a mano, intrecciando le preghiere degli shahid al Padre Nostro dei passeggeri, il regista scrive sullo schermo un memento sobrio e senza filtri, atroce e commovente, quasi imprescindibile. E mentre il suolo verde di Shanksville si avvicina, per noi è il momento delle lacrime.