L'America di Bush ancora sotto accusa. A puntare il dito è il premio Oscar Errol Morris col documentario Standard Operating Procedure, una denuncia sui crimini dei soldati Usa nella prigione di Abu Ghraib. Testimonianze shock che il cineasta raccoglie con interviste inedite e sbatte in primo piano accanto alle foto che gli stessi "torturatori" scattarono e che fecero scandalo in tutto il mondo. Ma soprattutto negli States. "Per le vittime fu una tragedia ma, con il rispetto dei morti e feriti, lo fu anche di più per il mio Paese dal punto di vista socio-politico. Quel Paese che si vanta di essere la più grande democrazia del pianeta", denuncia Morris. "Volevo a tutti costi riaccendere la luce sulle nefandezze perpetrate tra 2003 e 2004 in quell'inferno e ho impiegato oltre due anni per convincere i militari responsabili a farsi intervistare e filmare". L'effetto è forte, senza dubbi. Tanto da essere definito dallo stesso autore un "non fiction horror movie". In quasi due ore volti e voci delle vittime/carnefici spiegano tempi e modi di quei gesti, con tanto di testimonianza fotografica intervallata da ricostruzioni finzionali di come alcuni dei "criminal acts" e delle "standard operating procedure" (torture umilianti ma che non implicano sofferenza fisica) si sarebbero consumati. "Sono 20 anni che cerco di dare il mio contributo per la buona causa del mio Paese, e con questo documentario ho rischiato di mancare l'obiettivo perché non sapevo dove esattamente avrebbero portato le interviste. Fino a che punto avrebbero raggiunto "the core of the matter". Di certo la mia partenza erano le foto: senza di esse non c'era prova. Le fotografie sono state un vero social service alla nazione". Nodo difficile da sciogliere è fino a che punto le coscienze dei "torturatori" furono toccate. "Questo non potremo mai saperlo fino in fondo - ribatte il regista - ma io non ho problemi a definirli veri e propri torturatori. Non si può guardare con occhi neutrali chi si fa fotografare sorridente accanto ad un uomo torturato. E questo rappresenta solo una piccola parte della grande macchina della morte americana in Iraq: la sensazione è che nessun passo in avanti sia stato fatto dall'inizio della guerra ad oggi". Rispetto a chi ha accusato Morris di rompere le regole del documentario attraverso una ricostruzione finzionale dei fatti, il regista non ha esitato a reagire: "Per me è importante capire la verità, con tutti i mezzi possibili. Sono regista ed investigatore. Ho lavorato in maniera meticolosa attorno a questo documentario, che meglio di così non avrei potuto fare". Il film, prodotto dalla Sony Classics, uscirà negli Usa in aprile accompagnato da un libro che Morris promette ancor "più ricco di materiale e documentazione". E l'appuntamento con nuovi scandali, dibatti e polemiche è assicurato.