Si è concluso il 79. Festival di Venezia con il Leone d’Oro a All the Beauty and the Bloodshed, il documentario su Nan Goldin di Laura Poitras, terza regista consecutiva ad aggiudicarselo. Alcune riflessioni e questioni sulla Mostra. Con beneficio d’inventario. E invenzione.

Si è usciti dal Covid, dalla sospensione dell'incredulità che ci ha richiesto con evidenza cinematografica, con un ossequio totale alla realtà: fosse della storia, poco da dire, ma la resa è del racconto. Dietro la macchina da presa manca la trasfigurazione, il coraggio di comprometterla, la realtà. Stante la rinuncia della finzione a sovrascrivere il mondo là fuori, non può stupire che Leone d’Oro con Poitras, d’Argento (Gran Premio) e del Futuro con Saint Omer della documentarista francese Alice Diop abbiano privilegiato il cinema del reale tout court o, Diop, per contiguità poetico-stilistica.

L’approdo in carne e ossa dell’Academy (AMPAS) in Laguna, a celebrare plasticamente il veneziano trampolino di lancio per gli Oscar, lascia un interrogativo, ancor più stringente nell’attuale situazione dell’esercizio: è possibile che l’Academy richieda per l’eleggibilità di un titolo l’uscita in sala e una Mostra d’Arte Cinematografica no? Per capirci, solo due dei quattro titoli Netflix in Concorso l’avranno da Trieste in giù: White Noise e Bardo sì, Athena e Blonde no. Non si chiede l’intransigenza francese, ma un aiuto concreto al theatrical: questa Mostra Netflix-oriented se la può francamente permettere.

Netflix, appunto. Il poker non trova posto in palmares, e il servizio streaming esce dal Lido senza un serio candidato per l’award season, Oscar in primis. Peraltro, Bardo semplicemente non si può vedere su un piccolo e piccolissimo schermo, e l’ di Iñarritu come White Noise di Baumbach non è palesemente indirizzato al pubblico della piattaforma, bensì a confermare e/o affermare – a suon di riconoscimenti – il cotè autoriale della creatura di Hastings, Sarandos e Stuber. È andata malissimo, né il prevedibile successo presso la generazione Z di Athena e la un po’ bavosa attenzione per Blonde mitigheranno. Dopo aver tratto mutuo beneficio, questa battuta d’arresto di Netflix inciderà sulla Mostra?

Allargando la prospettiva, come - se - evolverà lo sguardo fin qui assai occidentale del Lido? Ricordiamo le nazionalità dei ventitré titoli in competizione. Sei americani. Cinque italiani. Cinque francesi. Due iraniani. Un giapponese. Zero Africa. Zero Oceania. Zero Corea. Zero Cina. Zero Russia. Zero Ucraina. Ci sarà una sterzata sul mappamondo o l’asse VE-US rimarrà dorsale?

Gli italiani. Il direttore della Mostra Barbera ha avuto ragione, licenziando il programma, a stigmatizzare la produzione nostrana troppa, ricca e brutta. Non ha avuto ragione, però, a inserire cinque titoli in concorso, assicurando la pattuglia tricolore al Lido fosse “ottima o eccellente”. I premi li hanno presi, regia e Mastroianni, il film americano di Luca Guadagnino, Bones and All, e il film austriaco, regia e interprete a Orizzonti, di Covi e Frimmel Vera (Gemma): giochi senza frontiere, al più. Il problema è del cinema italiano, di Venezia e a breve di Roma: se comprensibilmente Barbera ha avuto la prelazione sortendo questi risultati, sul Tevere che ci aspetta?

Complice il proseguo del digiuno di Rai Cinema, salgono le quotazioni, e si riempie la bacheca, di Lorenzo Mieli, dominus di The Apartment / Fremantle: Guadagnino, con la sola variazione di regia anziché Gran Premio nel Leone d’Argento, vince come il Sorrentino di È stata la mano di Dio l’anno scorso. Saprà Mieli tenere i due cavalli di razza nello stesso recinto?

Sempre sugli italiani. A Cannes 2023 potremmo calare addirittura il poker in Concorso: Marco Bellocchio (La conversione), Matteo Garrone (Io capitano), Nanni Moretti (Il sol dell’avvenire) e Alice Rohrwacher (La chimera). L’ultima volta, 2015, l’abbondanza sulla Croisette fu grama: Garrone (Il racconto dei racconti), Moretti (Mia madre) e Paolo Sorrentino (Youth) non vinsero nulla. Ciò detto, qual è l’odierno potere attrattivo e nutritivo di Venezia per il nostro cinema di prima, anzi, primissima grandezza? Perché, sebbene l’annata dica il contrario, è generalmente più gratificante l’approdo in Laguna per un titolo americano che per uno italiano? Se non vogliamo raccontarci frottole, il calendario per i nostri colori non è dirimente, anzi la Mostra apre la nuova stagione; se non vogliamo raccontarci frottole, È stata la mano di Dio l’anno scorso ci è venuto perché Netflix a Cannes non ci va. Guadagnino fa autentica eccezione, ma che fare con questa regola francofila dei nostri top player?

Da ultimo, dove lo peschiamo a breve il candidato nostrano da mandare agli Oscar? Tra i due in Concorso a Cannes, Nostalgia di Martone e Otto montagne – premio della giuria ex aequo – di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, o nei tre – Guadagnino e Monica di Pallaoro parlano inglese, dunque Amelio, Crialese e Nicchiarelli – in lizza a Venezia?

[Con titolo diMOSTRAzione questo articolo è stato originariamente pubblicato il 15/9/2022 sulla newsletter Koyaanisqatsi, per iscriversi qui]