C’è Ema del cileno Pablo Larraín, in odore di capolavoro; c’è il J’accuse di Roman Polanski, incentrato sul celeberrimo caso Dreyfus, interpretato da Jean Dujardin e prodotto da Luca Barbareschi; c’è The Laundromat di Steven Soderbergh, indagine scanzonata sui Panama Papers con Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas; c’è Wasp Network di Oliver Assayas, che sintetizza Irma Vep e Carlos e con Penélope Cruz e Gael García Bernal inquadra le spie cubane su suolo americano negli Anni Novanta.

E c’è Joker, che Todd Phillips ha voluto fortissimamente competesse, e che ritroveremo per certo nella corsa agli Oscar e forse nell’immaginario collettivo: Robert De Niro - sì, quello di Taxi Driver - passa il testimone al protagonista Joaquin Phoenix, e questi inocula alla schiatta dei Nicholson e Ledger il virus trumpiano. Make Joker Great Again.

Ah, ci sono gli italiani: le tre M, forse minuscole al cospetto di tanti e blasonati stranieri, forse minuscole per bacino (rione, città e traslazione in Italia del classico di Jack London) e Storia coinvolta, forse minuscole per architettura e peso produttivo, comunque M, Mario Martone con l’eduardiano Sindaco del Rione Sanità, Franco Maresco, da Palermo con la fotografa Letizia Battaglia, l’impresario Ciccio Mira e La mafia che non è più quella di una volta; Pietro Marcello, che riadatta Martin Eden con Luca Marinelli.

E altri due connazionali, fuori concorso e fuori formato, ovvero seriali: Stefano Sollima, con la stupefacente ZeroZeroZero da Saviano; Paolo Sorrentino, col raddoppio papalino The New Pope, con John Malkovich e il ritrovato Jude Law.

La Mostra di Venezia, e non è una novità di questa 76esima edizione, è più grande del cinema nazionale in cui si installa, e non potrebbe essere altrimenti. Nondimeno, a pensarci piccini si sbaglierebbe, perché c’è chi sta peggio.

Le polemiche internazionali per provenienza, paesane per portata sulla mancanza di donne registe in Concorso – sono due su ventuno – e sull’inserimento nel medesimo dello “stupratore” Polanski: basti ricordare il fregio della Mostra, che è Internazionale d’Arte Cinematografica, e che non vi s’aggiunge paritaria o equipollente allo Zeitgeist alla voce #MeToo e derivati. Al cospetto dell’arte non c’è genere, inclinazione sessuale, fedina penale che tenga, c’è solo il film, e sperabilmente bello.

Che poi, diciamocelo, stante la disparità a monte tra registi uomini e registe donne per avere lo stesso flusso a vale, ovvero a festival, che si fa, si mette una diga ai primi?