Chi andrà alla Casa Bianca? Il miliardario che minaccia di spazzare via tutto o la politica consumata? Quale l’immaginario in campo? E come il cinema ha declinato questo scenario?

Parafrasando uno dei pochi intellettuali italiani del ‘900, la situazione è grave ma non seria. Sarà anche per questo che la scomparsa del politique politicienne ha dato vita a tutta una serie di personaggi improbabili, tra la fantascienza e la farsa. Un personaggio come Trump, rubicondo e inverosimilmente giallo-crinito, sembra uscito fuori da un racconto di Dick. E in effetti nei confronti della vecchia politica americana rappresenta l’alieno.

Ancora una volta le elezioni presidenziali americane si offrono come paradigma interpretativo delle trasformazioni in atto nelle società occidentali. Trasformazioni che solo in minima parte coinvolgono gli assetti politici, la lotteria delle tornate elettorali, ma dilagano ovunque scompaginando modelli e figure sociali, riferimenti culturali, bagagli linguistici, retaggi valoriali e antropologici.

Lo scenario è imprevedibile e selvaggio, da un momento all’altro potrebbe spuntare un pallido cavaliere senza nome che si trascina appresso un popolo intero. Il cavaliere appartiene solo al suo cavallo. Non ha padroni e nemmeno ideali. Non va da nessuna parte ma, passando, travolge ogni cosa. L’orizzonte del cavaliere non è il futuro, luogo nel quale si sentirebbe fuori posto, ma un passato edenico e taroccato. Nessuno ci crede più ma non importa: il cavaliere è comunque la negazione dello status quo. Una figura persecutoria, anacronistica, persino parodica, terremotata sulla scena dopo che le due grandi narrazioni del secolo breve, il cinema e il partito di massa, sono entrati in crisi. Crisi organizzativa e di pensiero. Come se la deflagrazione dell’industria culturale (dove l’ultimo anello della catena di una volta, il consumatore, è diventato il primo) e la natura sempre più estemporanea e umorale della partecipazione politica suonassero  lo stesso spartito, nello stesso frangente e nel medesimo luogo (l’Occidente con il suo logoro paradigma capitalistico/democratico).

Di fronte al mito retrò della prima presidentessa donna della storia americana, sequel ideale alla favola del primo presidente nero, si erge la minaccia della catastrofe. La fine della storia. Qualcuno ha scritto che è il vero reboot degli anni ’80 non è Stranger Things ma Trump. Ci può stare, a patto di chiarire da subito che non è tanto la retorica e l’immaginario reaganiano il problema, ma il rimosso che quell’epoca edonista e irresponsabile ha saputo a lungo nascondere (e che nella serie cult di Netflix si materializza nelle fattezze di un mostro mangiatore di innocenti che vive dall’altra parte dello specchio).

Trump è insomma l’antinomia eletta a sistema, l’azzeramento del discorso - di qualunque natura: da quello più idealistico e politicamente corretto a quello più cinico, di realpolitik - il buco nero che inghiotte tutto quello che è venuto prima. E’ l’ombra che ha accompagnato la grande epopea americana fin dal principio e che ora reclama il suo posto. E’ questa la catastrofe, nel significato neutro ed etimologico di rovesciamento, che la cultura occidentale si trova a dover affrontare. E non sembra averne le armi. Ci si aspetta che venga un messia, fosse anche un doppione Marvel. O ci si volta dall’altra parte, in una terra fatata. Nel mente domina la confusione, che è anche elasticità ideologica. Il grande Clint diventa piccolo se appoggia Trump, agli occhi dell’establishment. Come se fare film fosse ancora un atto politico. Un altro grande equivoco di questa stagione travagliata.