Quando nel 1996 uscì nelle sale il film di Rob Reiner Il presidente. Una storia d’amore (The American President), con Michael Douglas nella parte di un Presidente vedovo che si innamora di un’ambientalista (Annette Benning), qualcuno scrisse sul “Washington Post” che il regista aveva risolto il «problema Hillary» eliminando il personaggio della First Lady dal film. Sono passati vent’anni da allora e quel certo problema, nella persona di Hillary Rodham Clinton, con buona pace dei detrattori, si appresta ad infrangere il cosiddetto soffitto di cristallo e a diventare la prima donna Presidente degli Stati Uniti d’America.

Una domanda interessante da porsi, a riguardo, potrebbe essere: si sono mai visti al cinema presidenti americani donne? La risposta è ancora più interessante: sì, due. Quella interpretata da Polly Bergen nella commediola Ho sposato 40 milioni di donne (Kisses for My President, C. Bernhart, 1964) e la POTUS (President of The United States) Lanford, che ha il volto di Sela Ward, in Independence Day: Rigenerazione (2016). Tra la Bergen e la Ward, a quanto pare, ci sono state diverse senatrici, vice-presidenti, procuratrici, colonnelle, donne di potere, ciniche calcolatrici in lotta per il potere, ma mai nessuna presidentessa cinematografica degna di nota. Il discorso cambia se invece ci accostiamo al reame televisivo. Il piccolo schermo ha infatti ospitato, nell’ordine, una Signora POTUS Geena Davis nella serie Una donna alla Casa Bianca (2005-2006) e una manciata di vicepresidenti agguerritissime e pronte a prendere il posto del presidente (maschio) in caso di aneurisma, coma, dimissioni improvvise, morte per avvelenamento e altre amenità del genere – si pensi a serie fortunate come Scandal, Veep-Vicepresidente incompetente e Prison Break. Si tratta, in ogni caso, di figure vagamente goffe, ai limiti del caricaturale, potremmo dire improvvisate, perdenti, incapaci alla lunga di reggere il confronto con i loro alter ego maschili e di rappresentare una vera alternativa all’ordine simbolico precostituito. Nuove Presidentesse sono state annunciate per le prossime stagioni televisive, una in Homeland 6 e l’altra in Supergirl 2, quest’ultima interpretata dalla ex Wonder Woman, Lynda Carter.

Riavvolgiamo il nastro e torniamo al punto di partenza, ossia a Hillary. Possibile che una figura come lo sua non sia mai stata generata come identità all’interno di uno degli infiniti mondi possibili della combinatoria cinematografica? È così inconcepibile nella sua modernità? E se invece fosse terribilmente “classica”? A questo punto, urge intraprendere un percorso alternativo. Si potrebbe rileggere la parabola esistenziale e presidenziale della Clinton come un vecchio classico hollywoodiano in stile “guerra dei sessi”, una di quelle sofisticate commedie del rimatrimonio (l’espressione si deve al filosofo americano Stanley Cavell) con Katharine Hepburn e Spencer Tracy, in cui l’unione all’interno della coppia deve essere messa in discussione da parte dei singoli individui per poter riaffermare democraticamente la propria indipendenza. Si pensi, per esempio, alla vicenda dei coniugi Bonner raccontata nel film di George Cukor La costola di Adamo (1949). Entrambi avvocati (come i Clinton), Adam e Amanda si ritrovano contro in un processo per tentato omicidio: lei difende una donna che ha sparato al marito fedifrago, lui è l’avvocato dell’accusa. Il confine tra pubblico e privato, tra interno ed esterno, si assottiglia e l’aula del tribunale diventa teatro di un acceso dibattito per la rivendicazione dei diritti di uguaglianza tra uomo e donna. In una celebre scena, per dimostrare alla corte che una donna è in grado di competere con un uomo anche sul piano fisico, Amanda autorizza una nerboruta acrobata del circo a sollevare in aria il marito, riempiendolo di ridicolo. Immaginiamo per un attimo che al posto di Spencer Tracy ci sia Bill Clinton e che, con la sua candidatura, Hillary stia cercando di dimostrare al mondo – e al marito – qualcosa. Tenendo conto del fatto che il legame tra Hillary e Bill è del tipo “rimatrimoniale”, poiché passato indenne attraverso l’arcinota peripezia del sexgate, nel caso in cui venisse eletta, si potrebbe affermare che Hillary Clinton sia, di fatto, l’eroina  di una “commedia della ri-presidenza”, alle prese con una questione monumentale – come le teste dei presidenti americani scolpite sul monte Rushmore – concernente la convalida di una scelta originaria tra due individui (il rimatrimonio) e la sua proiezione universale nell’ambito di una comunità (la ri-elezione presidenziale).

Nel finale del film di Cukor, quando ormai ogni divergenza sembra essersi risolta e l’armonia torna ad albergare nel nido d’amore dei Bonner, all’annuncio di Adam di volersi candidare alla poltrona di giudice provinciale per il partito repubblicano, Amanda ribatte candidamente: «Hanno già scelto il candidato del partito democratico?». Al termine di un’ulteriore discussione, i due coniugi si trovano perfettamente d’accordo su questo aspetto: che “maschi” e “femmine” sono uguali, che non c’è differenza tra i due sessi o, meglio, che esiste una differenza ma che è molto piccola. Il fatidico “The end” sopraggiunge in seguito all’esclamazione di lui: «Vive la différence!».

Forse è proprio questo il modo più autentico con cui il cinema è riuscito a raccontare il sogno americano di una presidenza al femminile. Per avere un personaggio davvero all’altezza di quel sogno, ci toccherà aspettare Hillary, la cui realtà storica va evidentemente al di là di qualsiasi immaginario.