Il passato

Le passé

4/5
Dopo Una separazione il divorzio: è l'angosciante cinema del dubbio di Farhadi, con la Bejo premiata a Cannes

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FRANCIA 2013
Parigi. L'iraniano Ahmad e la francese Marie sono separati da quattro anni e lui nel frattempo è tornato a Teheran. Per espletare le formalità del loro divorzio, l'uomo torna nella capitale francese; ben presto, però, si rende conto che i rapporti tra Marie e la figlia Lucie sono piuttosto conflittuali. Ahmad cercherà di migliorare la situazione, ma nel frattempo un segreto verrà svelato...
SCHEDA FILM

Regia: Asghar Farhadi

Attori: Bérénice Bejo - Marie, Tahar Rahim - Samir, Ali Mosaffa - Ahmad, Pauline Burlet - Lucie, Elyes Aguis - Fouad, Jeanne Jestin - Léa, Sabrina Ouazani - Naïma, Babak Karimi - Shahryar, Valeria Cavalli - Valeria

Sceneggiatura: Asghar Farhadi

Fotografia: Mahmoud Kalari

Musiche: Evgueni Galperine, Youli Galperine

Montaggio: Juliette Welfling

Scenografia: Claude Lenoir

Costumi: Jean-Daniel Vuillermoz

Altri titoli:

The Past

Durata: 130

Colore: C

Genere: DRAMMATICO

Specifiche tecniche: ARRI ALEXA, (1:1.85)

Produzione: MEMENTO FILMS PRODUCTION, FRANCE 3 CINÉMA, BIM DISTRIBUZIONE

Distribuzione: BIM

Data uscita: 2013-11-21

TRAILER
NOTE
- PREMIO PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE FEMMINILE A BÉRÉNICE BEJO AL 66. FESTIVAL DI CANNES (2013).

- CANDIDATO AL GOLDEN GLOBE 2014 COME MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA.
CRITICA
"Tutto, o quasi, nasce per colpa di una macchia su un vestito: qualcosa di incontestabile, ma di cui nessuno vuole prendersi la responsabilità. L'indizio non potrebbe essere più evidente: 'Il passato', il nuovo film di Asghar Farhadi scava nella storia dei suoi personaggi per farne emergere le «macchie» nascoste, capaci di aiutare a capire i comportamenti dell'oggi. Premiato a Cannes con la Palma per la miglior attrice (Bérénice Bejo), il film continua sulla strada già sperimentata dal regista iraniano nei precedenti 'About Elly' (2009) e 'Una separazione' (2011), quella di una narrazione che non dà nulla per scontato e offre allo spettatore la possibilità di scoprire, scena dopo scena e dialogo dopo dialogo, gli elementi utili per meglio capire la realtà. Ogni volta, però, col rischio di rimettere in discussione le conoscenze (e le certezze) accumulate fino a quel momento. Questo metodo, che chiede allo spettatore un coinvolgimento che va al di là della semplice osservazione dei fatti (e su cui ritorneremo), è sembrato ad alcuni, ai tempi della prima proiezione a Cannes, «ripetitivo» e «meccanico». Mi sembra un'accusa superficiale, che non tiene presente come al regista (anche qui unico responsabile della sceneggiatura) non interessi solo restare fedele a un suo personale stile di racconto, ma lo utilizzi per restituire il senso di un pessimismo più diffuso e invasivo, di una «tragedia quotidiana» con cui tutti dobbiamo fare i conti, capace di superare le storie singole dei personaggi per irradiarsi sulla realtà tutta. Una specie di invisibile gabbia che limita la libertà e che nelle primissime scene prende la forma di una parete di vetro che all'aeroporto separa Ahmad da Marie (lui è Ali Mosaffa, lei Bérénice Bejo) e impedisce loro di comunicare. (...) Farhadi usa Ahmed e la sua apparente estraneità ai fatti per smontare i silenzi e le reticenze dietro cui tutti vorrebbero nascondersi ma di cui finiscono per fargli carico. Nemmeno lui appare totalmente «innocente» (perché quattro anni prima aveva lasciato tutti per tornare in Iran?) e spesso le sue scelte aumentano le tensioni invece che diminuirle. Ma questa è una voluta conseguenza del modo di fare cinema del regista, che usa i comportamenti e le frasi (a volte espresse solo a metà) dei suoi personaggi per scavare nella storia e illuminare un po' meglio - e un po' diversamente - la realtà dei fatti. Così che, scena dopo scena, finiamo per conoscere di più e forse capire un po' meglio. In questo modo il ruolo che Farhadi chiede allo spettatore non è più solo quello di un osservatore attento e partecipe, ma piuttosto quello di un detective capace di entrare in una relazione emotiva con la materia raccontata. Come succede nella vita reale, dove i comportamenti delle persone finiscono per coinvolgerci, innescando tensioni e passioni. E, come nella realtà, senza trovare una risposta a tutte le nostre domande. Proprio quello che succede nei suoi film, che si chiudono sempre su un dubbio e non su una certezza. E su un senso di malinconico fallimento che ci restituisce dallo schermo il senso dei nostri limiti e, come qui, di un amaro bilancio esistenziale. Perché spesso non siamo nemmeno artefici fino in fondo delle nostre scelte." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 19 novembre 2013)

"(...) 'Il passato', nuovo film dell'iraniano Asghar Farhadi, il talento più prepotente della nuova generazione (e esportabile, anche se non fa certo un cinema facile), già premio Oscar per il magnifico 'Una separazione'. Sulla carta era la classica trappola: cast internazionale, lingua e cultura lontane (Parigi e le sue vestigia però restano intelligentemente sullo sfondo, tutto si svolge in una più neutra casetta di periferia). Ma Farhadi, come aveva già ampiamente dimostrato in 'Una separazione' conosce l'arte di elaborare nodi così complicati che più cerchi di scioglierli più si aggrovigliano. E la dolorosa matassa familiare di 'Le passé', con quella Francia così cosmopolita e insieme così chiusa, finisce per assumere un'inattesa valenza 'politica', oltre che esistenziale naturalmente. Nel quadro, già abbastanza labirintico, presto infatti si inseriscono ulteriori complicazioni. C'è un'altra moglie in coma, per ragioni che resteranno da chiarire; un figlio che deve nascere; una figlia grande che accusa la madre (ma nasconde a sua volta colpe solo sue); un figlio piccolo che non sa più quale sia la sua casa (solo i grandi registi usano con tanta misura e efficacia i bambini); più una tonnellata di rimpianti e cose non dette, e forse non dicibili, che separano ulteriormente l'iraniano e la sua ex-moglie. Ma mentre tutti si accapigliano su torti e responsabilità di ognuno, l'unico a sforzarsi di capire (e far capire) le ragioni di tutti sembra essere proprio quell'ex-marito venuto da lontano. Anche se a volte ottiene l'effetto contrario. Metafora perfetta, e forse non così casuale, di quei mediatori che cercano di costruire la pace nei Balcani o in Medio Oriente. Come per ricordarci che le guerre, di ogni dimensione, nascono sempre per le stesse cattive ragioni. E che mettendo sotto la lente di ingrandimento una famiglia (anzi tre) possiamo capire meglio il mondo in cui viviamo. Anche se Farhadi si guarda bene dal sottolineare questa lettura per concentrarsi sui suoi personaggi, sui loro sforzi, sui loro bisogni più profondi. Ovvero sull'impossibilità di conoscere quel passato, anche recente, di cui tutti, ogni giorno, nostro malgrado restiamo prigionieri." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 21 novembre 2013)

"Dopo la separazione, il divorzio. Dopo l'en plein a Berlino e l'Oscar miglior film straniero con 'Una separazione', l'iraniano Asghar Farhadi ritorna su coppia e conflitti, ma rincara la dose con due p(a)esi e due culture: 'Le passé' ('Il passato') si gioca tra Iran e Francia, divorzio e conseguenze, unione e dolore. Nel cast, il marito Ali Mosaffa, la moglie Bérénice Bejo ('The Artist') e Tahar Rahim ('Il profeta'), Farhadi scavalla i confini, ma non le geometrie relazionali: l'Iran cinematografico oggi è lui, import/export d'autore. Con un'avvertenza: non vuole emuli né epigoni, perché l'exemplum di Kiarostami scotta ancora. (...) Forse non geo-politicamente simbolico come il predecessore, ma scrittura, direzione d'attori, puzzle psicologico e tessuto morale anche qui sono eccellenti: Pirandello gli avrebbe fatto un monumento, e chi ama la settima arte, quella che destabilizza, chiede e non risponde facile, può ancora offrire la prima pietra. Parte dal passato, Farhadi, ma mette due occhi sul presente, perché 'scurdammoce o' passato' in farsi non si traduce: 'Il passato non esiste, la mente trasforma i ricordi, e così nascono i malintesi'. Al centro, lei, la Bejo, premiata a Cannes (forse al di là dei suoi meriti): 'Le donne sono il segno del cambiamento, forse perché partoriscono e hanno insita l'idea del futuro, mentre gli uomini incarnano fissità e tradizione', commenta Farhadi, che del femminile ha fatto il genere esistenziale e ideologico del proprio cinema, basti pensare, accanto a 'Una separazione', ad 'About Elly'. (...) quello di Farhadi è il cinema del dubbio: la scomparsa del futuro ('Elly'), il futuro a scomparsa ('Una separazione'), una mano che si muove o forse no ('Il passato'). Farhadi non ha certezze, fuorché una: dubitare di tutto, non per una volontà relativistica, bensì per intercessione del caso e, insieme, del libero arbitrio. È cinema umanista, il suo, che proprio nella mancanza di libertà ne trova il desiderio e la speranza: 'In Iran non c'è sufficiente libertà, ma non è detto che fuori ci sia: in Occidente esiste solo l'immaginario della libertà, le persone sono convinte di essere libere, ma non lo sono. Se nel mio Paese si lotta con la censura, in America c'è una censura ancora più forte: il capitale, la finanza'. Farhadi fa professione di fede nel pauperismo, meglio, nell'austerità: non concede allo spettacolare, non si fa prendere la mano dall'affabulazione, non sperpera il suo capitale poetico, non trascolora in terra straniera la sua glocalità. 'Non me ne sono andato in Francia per essere libero, ma perché la storia mi portava lì. E ho applicato lo stesso sistema di sempre: se sei abituato a camminare su un terreno accidentato, ti muovi allo stesso modo sull'asfalto'. Da vedere, riflettere, conservare." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 21 novembre 2013)

"Autore di 'About Elly' e dello straordinario 'Una separazione', Asghar Farhad continua in 'Il passato' a esplorare le contraddizioni dell'animo umano, componendo un intrigante puzzle di dialoghi, gesti, emozioni che, in un lento crescere di tensione, vanno a dissipare dubbi solo per crearne di ulteriori: lasciando i personaggi a confrontarsi con domande inevase, e la realtà della vita chiusa nel suo mistero. Intimista la fotografia di Mahmoud Kalari, di intonata naturalezza gli interpreti - a partire dalla Berenice Bejo di 'The Artist' in una prestazione asciutta e interiorizzata - e splendida la sceneggiatura. Ma, se proprio vogliamo, pur svolgendosi entrambi i film prevalentemente in interni, manca in 'Il passato' rispetto a 'Una separazione' lo spessore in più offerto dall'ambientazione: qui un'anonima periferia parigina, là il sotto testo di indecifrabile complessità del mondo persiano/musulmano." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 21 novembre 2013)

"Da non perdere 'Il passato' dell'iraniano Asghar Farhadi che in Francia ha filmato la crisi di una famiglia problematica alle prese con un divorzio, una nuova unione, turbolenze adolescenziali e il mistero che si cela dietro il tentato suicidio di una donna. Ricco di continui piccoli colpi di scena il film ci tiene con il fiato sospeso fino all'ultimo secondo ribaltando continuamente il punto di vista sulla vicenda e sui personaggi con una sceneggiatura che tutti gli studenti di cinema dovrebbero studiare. Premio a Cannes per la migliore attrice." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 21 novembre 2013)

"Il passato arpiona sempre il presente. È il filo conduttore del nuovo film dell'autore del bellissimo premio Oscar 'Una separazione'. (...) Un gran bel film, ottimamente interpretato." (AS. 'Il Giornale', 21 novembre 2013)

"Un uomo arriva all'aeroporto di Parigi. Una donna lo attende. I due si vedono e tentano di comunicare attraverso una vetrata che però impedisce loro di sentirsi. È un inizio perfetto, e al tempo stesso è forse l'unico momento di 'Il passato' in cui la sottolineatura simbolica diventa lievemente didascalica. La verità è che il cinema di Asghar Farhadi non funziona con i silenzi: la parola è fondamentale, i dialoghi sono fluviali e al tempo stesso avvincenti. Nessuno, nel cinema del XXI secolo, scrive dialoghi migliori di quelli di Farhadi. I suoi film funzionerebbero anche alla radio. Eppure sono cinema allo stato puro. Quasi un miracolo. (...) 'Il passato' può sembrare un dramma psicologico che mette a confronto varie idee (forse incompatibili) di amore e di famiglia. Ma il film ha almeno un livello di lettura ulteriore: per noi europei, è come osservare la nostra struttura sociale e i nostri meccanismi relazionali stando dall'altra parte dello specchio. Il punto di vista è sempre e soltanto quello di Ahmad: un uomo che viene dall'Iran dopo esser vissuto in Occidente, e che tornando in quel medesimo Occidente lo osserva con uno sguardo in parte alieno, in parte complice e competente. Già così, 'Il passato' sarebbe un film di straordinario interesse culturale e sociologico. In più, c'è la scrittura: come sa benissimo chi ha visto 'A proposito di Elly' e il successivo 'Una separazione' (vincitore dell'Oscar), Farhadi costruisce i film meravigliosamente, calando in ogni dialogo informazioni che portano avanti la trama e piccoli misteri che creano una suspence psicologica degna di Hitchcock. Infine gli attori, tutti stupendi: Ali Mossafa, Bérénice Béjo, Tahar Rahim e il solito, bravissimo Babak Karimi che, vivendo in Italia, è anche il curatore del doppiaggio nella nostra lingua. In due parole: grande film. Altre due parole: da vedere." (Albereto Crespi, 'L'Unità', 21 novembre 2013)

"L'amore può far male. E' una spirale di affetti e di complicazioni quella in cui Asghar Farhadi (Oscar due anni fa con 'Una separazione') tuffa lo spettatore. Il regista non giudica. Si limita a suggerire che in un momento difficile, qual è sempre un divorzio, tutti hanno ragioni, ma devono sapersi spartire anche le colpe. E' un thriller del cuore quello tessuto attorno alla volitiva Marie (farmacista che fa i salti mortali per tenere assieme la famigliola), al sensibile Ahmad (ex marito che rientra a Parigi da Teheran per firmare le carte del divorzio) e all'ombroso Samir (nuovo compagno con tanto di figlio piccolo, Fouad). (...) Film struggente, a cui si ripensa. Splendidamente interpretato da tutto il cast, a cominciare da Bérénice Bejo (quella di 'The Artist', il film Oscar muto) premiata a Cannes come miglior attrice. Per noi, il più bel film visto quest'anno sulla Croisette. Meritevole della Palma d'oro assai più del sopravvalutato 'La vita di Adele'." (Maurizio Turrioni, 'Famiglia Cristiana', 17 novembre 2013)

"Farhadi costruisce la sua trama come la tessitura di un tappeto, un dettaglio ne produce un altro e via ancora, per necessità consequenziale. Ma il suo cinema è un cinema di scrittura, e di parola, come ha mostrato 'Una separazione' solo che stavolta il regista sembra preoccuparsi più a tenere insieme lo svolgimento della storia che della messinscena sacrificando i lampi di cinema presenti nel precedente. Quali sono i segreti - ammesso che vi siano - che spaventano tutti i personaggi? Più che un singolo evento è l'assunzione di verità nei confronti di loro stessi a terrorizzarli, ciascuno si dice la propria storia, le cose come vuole sentirle per non ferirsi, per non soccombere al senso di colpa che sormonta tutto e tutti. Forse è una questione di poco amore per i personaggi che il regista mostra, e di quella misoginia implacabile che fanno della sua protagonista una donna insopportabile, stupida e ottusamente attaccata alla sua necessità di moglie/madre a tutti i costi. I fili che tessono come un tappeto la storia - o le storie - aggiungono a ogni passaggio un dettaglio in più, qualcosa che ci possa rivelare il dramma e il malessere che attraversa i suoi personaggi, per denudarli infine nei loro rimpiattini emozionali, così simili e vicini a quelli di qualsiasi altro essere umano. C'è forse un qualcosa dell'entomologo, ma poco importa, se ci fosse compassione. E invece Farhadi sembra tenere le distanze, se non spingerli il più possibile lontano lasciandoli - e assecondandoli - fino all'ultimo (...) nelle loro devastanti ipocrisie." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 18 maggio 2013)

"Fahradi conferma la sua grande capacità registica nel maneggiare i rapporti tra le persone, indagare nei segreti familiari, mettere in scena e tirare le fila di storie intrecciate e apparentemente inestricabili: guarda al passato per immaginare un possibile futuro." (Andrea Frambosi, 'L'Eco di Bergamo', 18 maggio 2013)

"Interpretato magistralmente da Bérénice Bejo, 'Le Passé' racconta la determinazione femminile che come una corazza cinge chi è decisa, sempre e comunque, a non darsi per vinta, a non cedere al destino, al caso, alla necessità... (...) Costruito come se fosse un giallo, 'Le Passé' svela a ogni cambio di scena qualche particolare rimasto nascosto, una sorta di puzzle psicologico che solo nel suo essere rimesso insieme può dare il senso compiuto della storia, il giusto e lo sbagliato, i premi e le punizioni, le speranze e le delusioni." (Stenio Solinas, 'Il Giornale', 18 maggio 2013 )

"Attori (...) uno più straordinario dell'altro. Uno più vero dell'altro. (...) Se un film come 'Le passé' è grande, lo è perché non ci sono buoni e cattivi. Tutti hanno le loro ragioni, tutti cercano in fondo di comportarsi nel modo migliore. Tutti soffrono, tutti cercano di controllarsi. E invece, il nervosismo di Bérenice Bejo affiora inarrestabile, l'angoscia del bambino tracima in ogni istante, la tragedia è di tutti, non di uno solo. Se un film come 'Le passé' è grande, è per l'attenzione microscopica ai personaggi, a ogni loro gesto, a ogni parola. Lo è per quel piatto di cibo iraniano preparato dall'ex marito, e mangiato con nonchalance, in piedi, dalla donna; lo è perché senti il rumore, e l'odore, delle cose concrete: un lampadario portato nel furgoncino che tintinna, la vernice rovesciata sul pavimento di una casa in ricostruzione, come le vite dei protagonisti; o per le zaffate di aria calda che ti sembra quasi di sentire, nella tintoria gestita dall'uomo di lei. È un gran film, perché si mescolano cose dette - tutte precise, tutte importanti - e cose non dette - a volte ancora più importanti; perché le immagini sono tutte plausibili, tanto da sembrare casuali, ma composte secondo un'estetica precisa, chiara: come il primo dialogo, muto, dietro i vetri dell'aeroporto. Lo è, infine, perché ci consegna un misto di amore, complicità, nervosismo, delusioni, vecchi rancori, tenerezza, e un flash sull'infinita fragilità dell'essere umano, quando è abbandonato. Perché tutti, in definitiva, nel film, soffrono solo di questo." (Luca Vinci, 'Libero', 18 maggio 2013)

"Il cinema non cambierà il mondo, come volevano certi romantici delle nouvelles vagues, ma può stringerlo ai suoi difetti, ai fallimenti, smascherare errori, responsabilità, ingiustizie. A volte lo fa con spietata lucidità, così da protetti spettatori di un film si sprofonda nella vita, e per fortuna che c'è una robusta poltroncina. (...) 'Il passato' secondo Farhadi è un filo tra le dita che tiene insieme un labirinto, un bel casino, per dirla facile, nella vita di Ahmad e Marie. (...) Si accetta anche il carico finale, perché Farhadi ha il dono di filmare e montare la consistenza e la caducità dei sentimenti nella macro famiglia di oggi incrociando Bergman e Zavattini." (Andrea Martini, 'Nazione - Carlino - Giorno', 18 maggio 2013)