L’antica città sacra di Benares è più di uno sfondo in Masaan (così in originale) opera seconda del talento indiano Neeraj Ghaywann.

Con i suoi gradoni (i ghat) che a seconda di dove ci si trova possono scendere o ascendere, dalla terra al Gange, dal Gange alla terra. Con i suoi mercati di cianfrusaglie e quelli dove bruciano i morti perché dalle ceneri rinascano meno impuri. Con i suoi amori clandestini, le faide familiari, i vicoletti sordidi e le acque della purificazione, Benares non è un luogo, è il luogo di tutte le violente e affascinanti contraddizioni dell’India.

Tra la terra e il cielo recita il titolo italiano, là dove Ghaywann sembra proprio sistemare il suo obiettivo, sorprendentemente a pelo tra gli antipodi culturali e i vivaci contrasti di una terra ricca di tradizioni e di possibilità di avvenire. Incapace però di conciliarli. Il figlio di un dalit resta impuro anche se è il miglior ingegnere sulla piazza. Lo scandalo di una relazione illecita è meno sopportabile di un ricatto ordito dal pubblico ufficiale. E quelle acque così care, e sacre, dove ci si deterge col corpo e l’anima, non sono forse perigliose corsie dove si sfidano, per le scommesse degli adulti, bambini in età puberale? In tutto questo guazzabuglio di umanità, non c’è vicenda che parli per tutte.

Perciò Masaan (Premio Fipresci a Cannes 2015) si affida al racconto corale come all’unico possibile specchio di una terra con molte voci, forse troppe. Storie di relazioni proibite, che violano le regole della casta e quelle dell’onore. Storie di rivalsa, di ricatti, di corruzione, di fughe dal proprio destino. Soprattutto storie d’amore. Uno sguardo sull’India indignato, ammaliato, dalla sensibilità europea – la condanna del maschilismo e del sistema delle caste – e il gusto della caratterizzazione spudorata, tipico di Bollywood, riferimento anche della messa in scena, così rozza e sgargiante. Non mancano sbavature e ingenuità, ma nel complesso Masaan è un’operazione riuscita, abile nel camuffare l’esotismo nella denuncia. E viceversa.