“Per tutto c'è il suo tempo, c'è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo […]”. “Un tempo per cercare e un tempo per dare come perso, un tempo per custodire e un tempo per gettare via”.

Brillante Mendoza affida alle Ecclesiaste (3: 1,6) l’epigrafe del suo nuovo film – Taklub (Trap), oggi in Un Certain Regard a Cannes – incredibile viaggio nella città di Tacloban all’indomani del devastante tifone Haiyan. Come ormai di consueto, il cineasta filippino – tra i più grandi registi capaci di fondere cinema etnografico e poesia – riesce a catapultarci sin da subito in quel poco che è rimasto dopo il passaggio dell’uragano, che costò la vita a 6.245 persone, con quasi 30.000 feriti e oltre 1.000 dispersi.

Entriamo in questa “trappola” dopo un rapidissimo sguardo all’infinità di macerie lungo la costa. Poi un nuovo dramma (l’incendio di una tenda che causa la morte dell’intera famiglia di Renato) ci aiuta a comprendere quanto, di fatto, gli abitanti di quel distretto ancora dovranno penare prima di poter sperare di tornare alla vita di un tempo. C’è un prima (che non vediamo) e un dopo nel film di Mendoza, un hic et nunc affidato soprattutto alle storie di tre personaggi: Bebeth (la solita, immensa, Nora Aunor), Larry (Julio Diaz) e il più giovane Erwin (Aaron Rivera).

Chi i propri figli (la donna), chi la propria moglie (l’uomo), chi i propri genitori (il ragazzo): tutti loro hanno perso qualcuno, tra morti accertati e – come nel caso della donna – figlioletti ancora dispersi. Tutti loro, ognuno a suo modo, cercano di portare avanti la propria vita con ciò che (e con chi) gli è rimasto, senza perdere di vista mai, neanche per un attimo, il senso del “bene” comune, la dignità di un popolo che, nel microcosmo di una collettività costretta in tendopoli o bidonville, continua a saper tenere in equilibrio sentimenti individuali e unità d’intenti.

“Un tempo per cercare e un tempo per dare come perso”: c’è tutto Mendoza qui dentro, che proprio come in Lola e nel più recente, straordinario, Thy Womb, continua a seguire e a filmare storie di resistenza. Non “calandole” nella natura, ma quasi filmandole nel mentre, creando quella sinfonica alchimia tra “cinema del reale” e “lirismo” difficile da trovare altrove.

Siamo costantemente lì, nella fanga e in processione con un gruppo di devoti cattolici, dentro una capanna di lamiere o a far colazione da Bebeth, la accompagniamo quando va in giro a raccogliere offerte per lo sfortunato Renato o, ancora, quando riassembla e incolla i pezzi di una delle tre tazze con le foto dei figli sovraimpresse: “Un tempo per demolire e un tempo per costruire”. E un tempo, questo sì illimitato, in cui continuare a perdersi dentro la vita, con la V maiuscola, del cinema di Mendoza.