Finalmente un esordio italiano nel lungometraggio che vuole guardare, che vuole studiare le immagini, che vuole servire l'intelligenza della spettatore attraverso il cinema. E' Senza lasciare traccia, opera prima di Gianclaudio Cappai presentata al Bif&st 2016 di Bari prima della sua uscita in sala.

Il film racconta del viaggio di una coppia verso il luogo in cui lei ricomincerà a lavorare dopo una lunga assenza; lui, reduce da un tumore forse non del tutto guarito, approfitterà del tempo libero per andare a scavare nel suo passato, dentro una fornace legata a traumi intimi e inconfessabili. Scritto dal regista con Lea Tafuri, Senza lasciare traccia è un thriller di vendetta sotto le spoglie di un dramma intimo ed esistenziale.

Il nucleo di partenza del film è la sovrapposizione tra la malattia del corpo e quella dell'anima, non un'idea originale in sé e forse raccontata con toni fin troppo compressi, ma che permette a Cappai di saggiare le possibilità del mezzo cinematografico in modo ampio e completo: dalla fotografia in 16mm poi gonfiata per sentire il peso della grana della pellicola allo spettatore, per dare l'idea di una materia calda in procinto di bruciare, alle inquadrature in qui i quadri, gli spazi e i corpi servono precise idee espressive, dagli zoom inconsueti, morbidi e avvolgenti che ricordano Altman al montaggio capace di congiungere ordine e caos, ellissi e precisione narrativa.

Un film promettente e seducente, che sfida e stimola lo spettatore cercando di dargli indizi e i nessi senza dover chiarire troppo, (ma senza essere criptico), trasformando l'occhio e il cervello di chi guarda in investigatori e protagonisti della storia che avvampa senza cercare catarsi e isterismi e che ha nelle prove di Michele Riondino e soprattutto di Vitaliano Trevisan due ottimi puntelli.