La moda passa, lo stile resta”, fa dire al personaggio della modella interpretato da Lèa Seydoux. Ma l'aforisma, meglio l'epitaffio, potrebbe tranquillamente uscire tanto dalla bocca di Saint Laurent quanto da quella del regista. Tale è la compenetrazione tra autore e personaggio, in perfetto “stile” Bonello. Nessuno si attendeva un biopic come si conviene, e così è stato: il suo Saint Laurent, che segue a breve distanza quello abbottonato e scialbo di Jalil Lespert, è un altro episodio di una filmografia non sempre avvincente, ma di certo coerente. Insomma un altro fantasma bonelliano.
Il ritratto del celebre stilista, a tratti vivido, più spesso sfuggente, enigmatico e contraddittorio, tagliuzzato nelle sua parti in grigio, si sovrappone a quello del regista di Tiresia e Le pornographe, così come il lavoro sui corpi delle modelle replica quello sul corpo degli attori. Lo stilista e il cineasta condividono lo stesso destino di dedizione e dannazione nei confronti della loro arte, capace d'incidere la materia umana, la carne, per farne feticcio del desiderio.
A interessare Bonello è la “materialità” del processo creativo, l'avviluppo straordinario di ispirazione, tessuti, misurazione, materia, idea e anatomia. Croce-via di bellezza e mostruosità, libertà e catene. La lotta portata avanti da Saint Laurent per la bellezza e l'eleganza, come dice lui stesso, è persa in partenza: la moda passa, lo stile (forse) rimane, ma l'anima vaga sempre da qualche altra parte. Non si afferra quel segreto vitale che “anima” appunto la macchina desiderante umana. Non c'è forma che possa trattenerla. La forma finisce semmai per imprigionare l'artista, renderlo schiavo dell'immagine proiettata di sé e del proprio marchio. La griffa: di cui tanto parla Pierre Bergé, l'amico, l'amante e il braccio destro di Saint Laurent, l'impresario raffinato che contenne il genio.
E' un film che pullula di icone, cornici, statue, fantasmi, un film chiuso come un set (l'atelier, il nightclub, la casa), mortifero, preso da un'irrequietezza insostenibile, scalfito dall'impotenza con la quale prende atto che Saint Laurent non è lì, non è nel ritratto che finisce al Louvre, non è in un'intervista di giornale, non è in un necrologio, e dov'è nemmeno lui lo sa (“Non lo so più, non lo so più”, dirà ormai anziano).
Attorno a questo falso movimento, alla coscienza tranquilla che il lungo (due ore e mezza!) inseguimento sia dannatamente vano, cresce un film di impeccabile confezione (girato in pellicola), di magnifici interpreti (non solo il protagonista, Gaspard Ulliel, a eccellere ma anche tutto il cast di contorno, da Jeremy Renier a Louis Garrel), vivido nel restituire una decade, un ambiente, un passaggio sonoro (colonna sonora per nostalgici del rock). Ma fondamentalmente a circuito chiuso: dal mondo di Bonello, Bonello non esce.