Personal Shopper di Olivier Assayas  è un’opera di esagerate ambizioni, che incappa spesso e volentieri in soluzioni improbabili.

S’incarta persino. Quando viene meno la fiducia ecco che bisogna ampliare la trama, ricamarci intorno, confondere le tracce, muovere i personaggi, aggiungerne.

Horror vacui? Piuttosto una sceneggiatura scritta in maniera approssimativa. Forse addirittura non scritta, come pare ammettere l’autore nel divertente intermezzo dedicato a Victor Hugo. Lo scrittore è in esilio e desidera comunicare con gli spiriti, i quali che però non comunicano con la lingua ma spostando tavolini.

Ed è un film, questo, di spostamenti continui, di transizioni solo percepite, di falsi movimenti. Da una città all’altra: Parigi, Milano, Londra. Da una boutique all’altra. Da una camera all’altra. Da un desiderio all’altro. Da una dimensione all’altra, terrena/ultraterrena. E al centro della scena, come alla periferia, sempre lei, la personal shopper.

Un’ottima Kristen Stewart riprende il ruolo di celebrity assistant che Assayas le aveva già assegnato nel precedente Sils Maria.

Stavolta, nei panni di Maureen Cartwright, è la galoppina per un’atelier design conosciuta come Kira. Gira l’Europa ritirando capi di abbigliamento, accessori e gioielli che l’altra poi indosserà. Per Maureen provarli è proibito, la cosa la fa soffrire parecchio.

A tormentarla non poco è anche la recente perdita del fratello gemello, Lewis. Maureen aspetta di ricevere da lui un segnale che le faccia sapere che sta bene, che è in pace. Perché Maureen è una medium, proprio come lo era Lewis.

Due lati apparentemente inconciliabili - il culto dell’apparenza da una parte, la ricerca di una realtà ultra-fenomenica dall’altra - indicano la bisettrice tematica, emotiva e poetica inseguita con affanno dal regista. Dimensioni che restano però solo giustapposte, creando perciò più di un grattacapo a chi (personaggio e spettatore) vorrebbe ricucirle a forza di espedienti.

Maureen, personaggio ricco di mistero, desiderante, turbato e contraddittorio come il suo pigmalione, è un altro avvincente doppio nell’opera bifronte del francese. Che qui si spinge in territori inediti, nell’horror, nella ghost story, nello spiritualismo, nella paura dell’ignoto. È come se tutto il film si trovasse tra due forze, preso in mezzo. Ma preso in mezzo da chi?

Assayas non lo dice, traccia un cerchio, aprendo e chiudendo con la stessa domanda. Cosa c’è oltre i bordi dello schermo: un altro schermo? Il cinema è ancora il doppio della realtà o questa, in definitiva, è il doppio del cinema? E poi, è ancora il regista a domandarlo o il fantasma (del suo desiderio)?

Personal Shopper affascina e disturba perché si spinge oltre il patto conosciuto tra autore e spettatore, oltre lo stesso confine dell’opera d’autore, in definitiva oltre il cinema e la vita.

La messa in abisso è qui letterale: c’è uno sguardo rivolto a uno sguardo che avanza a mosca cieco nel buio. Attirato e atterrito da quel nero che, potendo, inghiottirebbe tutto. È un tentativo folle, suicida quasi, di realizzare un film sul negativo.

A memoria non ricordiamo un gesto cinematografico altrettanto solitario e coraggioso. Non si tratta più di dire della morte del cinema – e per estensione, dato il rapporto gemellare, del reale – ma di familiarizzare già con il suo fantasma (ma è davvero fraterno lo spettro che cerca Maureen, e con lei Assayas?). Così, non si procede più per segmenti narrativi o per raccordi di stile, ma balenando a intermittenza, inseguendo  lo sfarfallio tra dissolvenze in nero (e infine in bianco…).

Film senza controcampo né fuoricampo, monologante e respingente. Terrificato più che terrificante, come proteso su un invisibile precipizio dove forse è ancora possibile scorgere cinema e vita, ma non più nelle forme e nei modi che conosciamo.