Il primo titolo in listino della neonata Vision Distribution, il braccio distributivo Sky per il cinema, contiene anche le sue istruzioni per l’uso. Un cinema di genere, possibilmente italiano, non necessariamente in commedia, capace di dialogare – oltre che con il pubblico - con tutti i segmenti dell’industria culturale. Qui in particolare si segnala la fratellanza con il fumetto, sviluppato in parallelo da Roberto Recchioni e Mauro Uzzeo, illustrato da Lorenzo “LRNZ” Ceccotti ed edito da Sergio Bonelli Editore.

Monolith è dunque un interessante esperimento italiano di crossmedialità affidato – ed ecco un’altra peculiarità crediamo della proposta Vision – a un filmmaker giovane ma già collaudato come Ivan Silvestrini (2Night).

Il quale si diverte a realizzare un thriller artigianale e citazionista, evidentemente sintonizzato con l’estetica tipicamente simbolica ed essenziale del graphic novel.

Monolith è anche l’auto iper-accessoriata che dà titolo al film, un'auto a prova di proiettile, controllata da un robot logorroico tipo Siri, dal design tozzo e gommoso. Un mix tra un blindato, la Supercar guidata da Hasselhoff e l’Hal 9000 del 2001 kubrickiano (a cui anche il “monolite” fa riferimento). Al suo interno viaggiano una giovane donna e il suo figlioletto, lei ex cantante convertita alla maternità con qualche problema di autostima e di ansia generalizzata. Viaggiano attraverso il west americano (California) in direzione L.A., la città del cinema, finché un contrattempo non li pianta nel bel mezzo del deserto: lei fuori dall’abitacolo e il bimbo chiuso al suo interno ermeticamente.

C’è tutta una prima parte in modalità Locke – dentro l’autovettura, chiamate e chiamate - solo che alla sceneggiatura non c’è Steven Knight e al volante manca decisamente Tom Hardy, per quanto la bella e volenterosa Katrina Bowden faccia il possibile per trasmettere emozioni non sintetiche; e una seconda più movimentata, con l’eroina che cerca in tutti i modi di domare la macchina infernale e di rientrare in possesso del veicolo.

Tra velleità carpenteriane e una non sgradevole declinazione del cinema d’azione in chiave femminile, Monolith si lascia guardare forte anche di una durata contenuta (80 minuti scarsi) e di un apparato simbolico minimal ma efficace, che gioca con la ferraglia e le reliquie della mitologia americana – lo spazio del deserto e della frontiera e il “No Trepassing” del tempo, che una macchina piantata e un aereo abbandonato evocano con estrema semplicità – adattandole a una storia privata, intima anzi. Un’essenzialità di progetto e di sviluppo che finisce anche per esserne il limite, dove la durata maschera solo in parte una dilatazione narrativa non sempre giustificata dagli eventi (tradotto: succede poco).

Un divertissement cinefilo e un curioso tentativo di ridefinire gli steccati del prodotto italiano: cinema che fa di necessità virtù.

A metà agosto va bene così, in attesa di rivedere quello che di virtù faceva necessità.