Fin dai titoli di testa si capisce che Logan non è un cine-comic come gli altri: il terzo e probabilmente ultimo film dedicato al personaggio di Wolverine e quindi spinoff degli X-Men, diretto sempre da James Mangold (autore anche del brutto film precedente, Wolverine - L’immortale), parte con immagine di sole arido, atmosfere desertiche, grafica dei titoli che ricorda il cinema assolato degli anni ’70. E Logan, nella costruzione che ha dato Hugh Jackman, sembra la versione science-fiction di Un uomo senza scampo di Frankenheimer.

Il film è ambientato nel 2029: Logan è più un uomo di mezz’età che un supereroe, acciaccato e disilluso, lavora per mantenersi e per badare a Xavier, che è ormai, per lui, un padre molto malato. Ma l’apparizione di una bambina misteriosa, clonata dal suo DNA, lo porterà di nuovo in pericolo e in fuga per fuggire da coloro che vogliono eliminare i mutanti e catturare la ragazzina. Scritto da Michael Green, Scott Frank e David James Kelly assieme al regista, Logan è più un dramma d’azione a tinte western che un fantasy supereroico, in cui si assiste senza mezzi termine al crepuscolo di un’idea di cinema blockbuster per reinventarne una che coinvolga anche un pubblico più maturo.

Per esempio, al livello più superficiale di analisi, il film ha una violenza e una durezza visiva che ha rari precedenti nei film canonici Marvel o DC, i personaggi muoiono, sanguinano copiosamente, si squartano in modo esplicito sfiorando lo splatter dando senso e corpo visivo alla cupezza delle atmosfere, dei personaggi, senza le edulcorazioni a misura di minore (tanto più che la piccola Laura, una fantastica Dafne Keen, è più ferina e animalesca di Logan). Ma la confezione stessa è pensata per un pubblico che non cerca i parossismi da baraccone, la cui attenzione non ha bisogno di spettacolo ogni 10’: il ritmo è più ponderato, i personaggi si confessano, si aprono, si prendono il tempo necessario per emergere e sbozzare le curiose relazioni familiari, cosicché l’azione possa emergere meglio (come nella bella fuga automobilistica). E le stesse citazioni, da Il cavaliere della valle solitaria a Johnny Cash sui titoli di coda (che del film succitato di Frankenheimer era la colonna sonora), danno spessore e complessità tematica a un film che non ha paura di uccidere personaggi importanti in modo improvviso, secco, senza patetismi.

È un film sorprendente Logan, che sa costruire delle precise regole di genere e allo stesso spostarle, guardare un po’ più in là: e il merito oltre che di Jackman - che di questo personaggio è ormai un artefice, non solo l’interprete - è di Mangold, capace di dare a questo film mainstream il passo dolente, ironicamente disperato ma anche vitale e rinvigorente dei suoi film, come mostra un finale che sembra una rilettura sanguinolenta dei Ragazzi perduti di Peter Pan in cui la saga si spegne per riaccendersi e ricominciare da zero. O meglio, da X.