Arriva finalmente nelle sale italiane, con ben quattro anni di ritardo (ma meglio tardi che mai), Laurence Anyways, vale a dire il terzo lungometraggio di Xavier Dolan, enfant terrible della cinematografia internazionale e fresco vincitore del Grand Prix per il suo Juste la fin du monde a Cannes 2016.

Dopo aver messo prepotentemente a nudo la propria personalità già nel film d’esordio, quel J’ai tué ma mère realizzato a cavallo dei vent’anni, vibrante e imperfetto come può esserlo solo un’opera concepita tra gli eroici furori dell’adolescenza, con questa sua terza prova, Dolan rischia e raddoppia sostanza e ambizioni a partire dalla durata: quasi tre ore (exploit che sarà sfiorato dal successivo Mommy), giostrando tra quei funambolismi di stile che hanno contribuito a marcare profondamente il suo cinema.

La storia d’amore tra Laurence, professore di letteratura a Montréal e promettente romanziere, e l’esuberante Fred (Suzanne Clément, attrice-feticcio del regista e giustamente premiata in questo ruolo come migliore attrice al Certain Regard di Cannes 2012) è di quelle che lasciano il segno. Quando Laurence confessa a Fred la sua natura di donna nel corpo di un uomo, la ragazza rimane sconvolta ma, in barba ai pregiudizi (siamo alla fine degli anni ottanta), decide di rimanere accanto a Laurence e di aiutarlo nella sua nuova vita. Da quel momento la loro relazione si protrae per un decennio tra separazioni e riconciliazioni, lungo il sempre più accidentato percorso verso una felicità irraggiungibile.

Riducendo lo spazio d’azione dei propri personaggi all’interno di un formato 4:3 (uno tra i tanti espedienti per i quali Dolan, soprattutto in futuro, dimostrerà un tenace affetto), e isolando di volta in volta spaccati esistenziali, sogni, aspirazioni, disfunzioni sociali e familiari, desiderio d’integrazione e ricerca dell’identità personale, il regista canadese dirige con un senso della narrazione che non sembra dovere niente a nessuno se non a se stesso, talmente sicuro dei propri mezzi da riuscire a incastonare, nell’architettura d’insieme, una capacità fuori dal comune di ritrarre esistenze e ambienti e un approccio talvolta smaccatamente pop alla messa in scena (valga, su tutto, l’uso disinvolto delle musiche) che, qua e là, gioca pericolosamente sul filo del kitsch. Quello stesso, assurdo, magico equilibrio che ha permesso a Dolan di realizzare la sequenza finale, da brividi, entro la quale sentiamo pronunciare la battuta che dà il titolo al film e ne racchiude l’intimo significato: Laurence, anyways.