Colta da una furiosa tempesta, una nave fa naufragio vicino a un'isola. Comincia così con un ‘incipit’ tanto finto quanto suggestivo La stoffa dei sogni, un film che riesce ad affrontare temi importanti quasi senza farsene accorgere, senza urlare né strepitare. Il film è diretto da Gianfranco Cabiddu, che qui giunge al sesto film, a partire da Disamistade (1988 ma uscito nel 1994) e poi tra gli altri Il figlio di Bakunin 1997 e Passaggi di tempo 2004. Ambientata infatti in Sardegna (ma senza mai nominarla), la storia, mette a fuoco l’imprevista vicinanza che accomuna un piccolo e ingenuo gruppo di attori di teatro viaggiante e quattro camorristi accompagnati da due guardie in trasferimento nel carcere dell’isola. Il naufragio  scombina le carte e messo in difficoltà dalla mancanza di documenti il direttore è costretto a credere al capocomico Campese che afferma trattarsi di un gruppo unico e si offre di coinvolgere tutti nella messa in scena di un testo shakespeariano…

La stoffa dei sogni, ovvero come un piccolo film, puntando essenzialmente  su attori solidi e ben motivati, su una regia di insolita pulizia e scorrevolezza, su un dialogo vivace, riesce a creare le premesse per la messa in opera di un meccanismo narrativo di estrema felicità espressiva. Qui c'è innanzitutto la conferma che William Shakespeare è maestro insuperato della sceneggiatura, magari anche con la versione de "La tempesta" reinventata da Eduardo De Filippo in napoletano, riscritta ad uso e consumo di personaggi che passano da un testo in lingua a quello in dialetto e intanto cambiano vestiti, abiti, stoffe, appunto. Senza dimenticare che “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” e che ogni parola ha un tesoro che ne racchiude mille altri. Così il momento in cui il capocomico riscrive il testo in napoletano per sembrare più ‘credibile’ diventa centrale nel continuo svariare tra verità e finzione, i personaggi diventano ombre le cui figure si stagliano con delicatezza sulla scena di una dolce/amara tessitura del racconto.  Se il tema teatro/vita è il principale, intorno (ma non 'di contorno' ) se ne affiancano tanti altri: quella calda atmosfera anni '50 che conferisce al carcere una preziosa sensazione di 'retro'; l' identità nascosta dietro il tentativo di fuga da se stessi e da quelle maschere che non vogliono lasciarci; la vita che si riprende il primo piano nel desiderio di Miranda di una nuova relazione e nella attesa di don Vincenzo che ritrova un figlio creduto perso; la presenza vagante di Antioco, prototipo di un pastore sardo forse non più esistente eppure ben vivo nella millenario memoria degli isolani. Tanti temi dunque si muovono in così piccolo terreno. Tanti interrogativi si agitano nel dilatato spazio del carcere luogo della chiusura e della voglia di rinascere. Così il finale, in perfetto stile teatrale, è affidato ad un ulteriore colpo di scena, una soluzione tanto imprevista quanto conseguente, risultato di uno scherzo impudico quanto beffardo. Un film italiano bello e variegato, interpretato da un gruppo di attori  di vivace personalità e credibile presenza, da Sergio Rubini (Campese) a Ennio Fantastichini (il direttore del Carcere), da Renato Carpentieri (don Vincenzo) a Maria (Teresa Saponangelo, la moglie di Campese).