La leggenda racconta che Steve Jobs nel suo iPad avesse solo un libro e che quel libro sia stato dato a tutti i partecipanti al suo funerale. Il libro in questione è Autobiografia di uno yogi di Paramahansa Yogananda, uno dei principali guru dello yoga. A questa figura tanto spirituale, quanto concreta nelle battaglie che ha combattuto, Paola Di Florio e Lisa Leeman hanno dedicato Il sentiero della felicità.

Il film è un documentario che racconta la vita di Yogananda dalla nascita fino alla morte, attraverso il racconto “in prima persona” dei suoi gesti e dei pensieri, la lettura dei suoi scritti e le testimonianze di discepoli e seguaci – come George Harrison – che hanno cambiato le loro vite dopo il contatto con la spiritualità dello yogi. Scritto dalle registe, Il sentiero della felicità è un viaggio all'interno di una personalità spirituale e dell'eredità che ha lasciato  nel mondo che diventa ben presto un santino cinematograficamente discutibile.

Sfruttando l'espediente di una voce fuori campo che interpreta pensieri e parole di Yogananda (la sua anima? Una reincarnazione narrativa?), Di Florio e Leeman compongono un mosaico di materiali che ha come filo conduttore la biografia dello yogi, con al centro la sua vita negli Stati Uniti e il suo rapporto con uno stile di vita opposto al suo, sul quale innesta le riflessioni di maestri e allievi sugli insegnamenti e l'arricchimento della loro vita grazie a essi.

Ma se il messaggio di Yogananda, e quindi gli intenti delle autrici, sono lodevoli e affascinanti, le modalità scelte per portarlo sullo schermo sono molto deludenti: Il sentiero della felicità, nel cercare di comunicare “la scienza dell'anima” che supera le contraddizioni della società, diventa un pamphlet propagandistico, in cui si scorge l'ansia di evangelizzare lo spettatore attraverso un'iconografia proselitica e un'estetica new age entrambe di grana molto grossa. Sprecando così proprio l'efficacia di quel messaggio.